La verità dell’olio: lo Jazzo Murici

24 luglio 2016 22:53 di jazzi

 

Scendendo le pendici del monte Bulgheria l’aria si satura di umidità. Sono gli ulivi, che fermano tra le loro foglie quel poco d’acqua presente trattenendola tra terra e le fronde. Siamo davanti allo jazzo Murici e qui vediamo subito il grosso tronco avvolgente di un ulivo scavato. Un rifugio, ma anche un’amaca verticale su cui godere del tempo e del luogo.

Questo luogo è pressoché intatto da oltre mille anni. Da quando nel 726, a seguito del divieto iconoclasta di Leone III Isaurico, i monaci decisero di abbandonare Bisanzio e l’impero Romano d’Oriente e spostarsi in Sicilia, in Puglia e in Campania. Il territorio intorno al Monte Bulgheria è infatti per i monaci un luogo ideale dove professare la solitudine, madre di ogni virtù. E ancora oggi solo il frinire di cicale e grilli distoglie dalla medesima pace millenaria di questo luogo incantato.

L’Abbazia di San Pietro a Licusati (Camerota) porta i segni passaggi e stratificazioni. Al tempo le celebrazioni si svolgevano con il rito greco, entrato nelle storie e nei toponimi locali, ancora oggi in uso.

Il silenzio, la tranquillità sono il rifugio ideale per i pellegrini e gli eremiti. Le montagne ruvide a picco sul mare sono una protezione naturale per i monaci che nelle piccole grotte dette laure danno corpo alle loro rudimentali celle, il cui unico segno di riconoscimento è la vergine Portinaia mesa a vigilare sulla soglia.

Questo percorso tra grotte/laure dà il nome al sentiero, chiamato lavrotico. Le stesse strade che collegavano le celle dei monaci sono divenute così i tratturi utili per i pastori che salgono agli jazzi. Stesse traiettorie di ieri e di oggi: stratificazioni di memoria che si sommano nel passaggio, in un continuo attraversamento di luoghi e di tempi.

I basiliani in Cilento scelgono a poco a poco la dimensione collettiva. Il cenobio diventa il fulcro delle loro attività, e il territorio che si snoda da lì fino al mare diventa la comunità con cui costruire, scambiare, crescere. Per questo motivo il territorio di Camerota presenta oggi una trentina di toponomi etimologicamente di origine greca.

La loro fede si riflette sul territorio oltre che nelle coscienze assumendo le forme e le definizioni della regola monastica. Così sorgono i poderi, tra le sorgenti, i monti, le grotte. Rifugi, capanne, uve, vengono nominati, e i loro nomi sono ancora oggi conservati dalla comunità.

Nomi che portano il segno di quello scambio di preghiera e rete vero e proprio segno di distintivo di costruzione di un gruppo, di una comunità fatta di mistici e paesani. La montagna appartiene al monastero, ma i frutti e le sue trasformazioni sono di tutti gli abitanti.

I monaci organizzano e introducono innovazioni in agricoltura, disboscano valli e affidando il lavoro agli autoctoni. Sono i monaci che introducono l’ulivo così come i fichi, il lino ed il gelso per l’allevamento dei bachi, e poi la lavorazione della creta,del calcare e del carbone. E sempre i monaci insegnano infine a irreggimentare l’acqua e ad usare le erbe con proprietà terapeutiche.

E in seguito col crescere del patrimonio terriero, i monasteri diventano anche veri e propri punti di produzione e di stabilità economica con il con il conseguente insediamento di contadini. Il territorio si ritrova così quale incrocio di lavoro, commercio e pellegrinaggio.

Tutta la comunità origina e dipende dai possedimenti basiliani. Il cenobio diviene centro propulsore dell’economia locale per diversi secoli: fulcro di ogni attività produttiva e spirituale. In altre parole la comunità si costruisce attraverso quella rete unica composta dalla montagna e dal mare. Uno scambio tra santo e profano, tra preghiera e produzione.

I monaci si prendono cura delle esigenze spirituali e corporali dei contadini offrendo un esempio di vita, protezione, lavoro, rimedi alle malattie e generi alimentari in tempi di carestia. Quello che fu un paesaggio aspro inizia ad assomigliare all’Oriente, con pini d’Aleppo e ulivi. Allora, come oggi, in quella vicinanza mediterranea che attraversa l’aria e gli orizzonti.

Le ore di lavoro e quelle liturgiche sono scandite dalle campane delle chiese e delle cappelle rurali. Le quattro ore maggiori sono il mattutino, le lodi, il vespro e la cometa. Le minori cadono alla prima ora, alla terza, alla quarta e alla nona. Gli anziani ancora oggi usano questo orologio solare e liturgico scandendo il tempo che passa in un linguaggio arcaico ora in via di estinzione. Un tempo che appare incredibilmente lento per determinare i passi e per riempire le giornate.

Dicono sempre gli anziani che “A’ verità rell’uoglio, ‘a cunosce Dio e ‘o trappitaro” (La verità dell’olio la conosce Dio ed il frantoiano). Un olio che è una benedizione, per la bontà e per l’area, che racchiude nelle sue radici una storia di preghiera e una sponda del mare così simile a quella da cui sono partite le olive. L’uliveto millenario dell’abbazia di San Pietro è di origine basiliana. I grandi fusti, portano con sé milioni di foglie cadute dalla pianta simbolo della vita.

Lungo il sentiero degli ulivi millenari troviamo lo jazzo dei Murici, coperto dalle fronde. Il paesaggio che riflette quella presenza nello scorcio di Murici appare comunque immutato. Le uniche presenze antropiche sono i muretti a secco, o muricini che danno il nome allo jazzo.

I muricinari sono, infatti, costruttori di muri a secco che continuano la tecnica del poligonale italico, di cui c’è traccia nei resti pre-greci dei diversi siti archeologici cilentani. È come se riconoscessero le pietre dal suono, se ne distinguessero lo spirito, determinandone consistenza, struttura e composizione, e con colpi di mazza ottengono tipi di taglio diversi per i muricini di contenimento, eretti ancora oggi a confine dei poderi.

Cose che accadono solo lì, all’ombra degli ulivi, dove il tempo delle piante e il tempo delle pietre scandisce il tempo e le traiettorie degli uomini.

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