IL ‘VUOTO’ COME SPAZIO DI SPERIMENTAZIONE E LIBERTÀ

12 dicembre 2016 8:10 di jazzi

Di Stefania Crobe

Aree sostanzialmente lontane dai centri urbani, dai centri di offerta di servizi, un tempo fulcro vitale della vita delle comunità locali sono oggi caratterizzate da processi di abbandono. Sono le Aree Interne e dal 2013 sono oggetto di una strategia nazionale di sviluppo, lanciata dal Ministero per la Coesione Territoriale con l’ambizioso obiettivo di invertire la loro secolare e crescente tendenza allo spopolamento, per restituire loro centralità nella riflessione politica e nel dibattito sul futuro del paese. Ne parliamo con Filippo Tantillo, coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne. Una riflessione che abbraccia temi più ampi, dall’urbanizzazione planetaria al ripensamento dei linguaggi della ricerca


Se, secondo le più recenti teorie dell’urbanesimo planetario, la città è ovunque e in ogni cosa, con la mondializzazione dell’urbano – la rivoluzione preconizzata da Henri Le Febvre nel 1970 – il confine diventa la soglia della nostra percezione del mondo mentre assistiamo alla nascita di nuove forme ibride nelle quali è sempre più difficile riscontrare una differenza netta tra città e non-città. Così le dicotomie città/campagna, centro/periferia, urbano/rurale risultano il riflesso di una realtà mutevole e inafferrabile.
Le aree di margine, ciò che prima era considerato al di fuori dei confini della città, in questa prospettiva, riscoprono potenzialmente una rinnovata funzione: non luoghi arretrati o residuali, antitesi di quel progresso cui il mondo ottocentesco sembrava puntare, ma terreni di sperimentazione, di socialità, occasione di scoperta di un sistema di relazioni che nella città densa profanata dal capitalismo rischiano di perdersi.
Aree sostanzialmente lontane dai centri urbani, dai centri di offerta di servizi, un tempo fulcro vitale della vita delle comunità locali e oggi caratterizzate da processi di spopolamento.
Sono oggetto di una strategia nazionale di sviluppo, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, lanciata nel 2013 dal Ministero per la Coesione Territoriale con l’ambizioso obiettivo di invertire la loro secolare e crescente tendenza allo spopolamento, e di restituire loro centralità nella riflessione politica e nel dibattito sul futuro del paese.
Ne parliamo con Filippo Tantillo, coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne

In questo processo inarrestabile di urbanizzazione planetaria come e dove si situano quelle che vengono solitamente definite aree interne?
Le tue riflessioni mi stimolano a ragionare sul senso più generale dell’intervento sulle aree interne, e sulla sua dimensione “alta”, ossia quella di una sua contestualizzazione nello scenario storico-sociale quale quello tratteggiato dagli autori che citi, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri.
Partendo dalla tua domanda, dove si situano le aree interne nel quadro dell’urbanizzazione planetaria, c’è subito da chiarire che non parliamo ne’ di aree rurali, anche se per lo più si tratta di aree lontane dai grandi centri urbani, ne’ di aree svantaggiate, anche se spesso un tratto che le caratterizza è la fragilità del sistema produttivo. Il criterio che identifica i territori sui quali stiamo lavorando come “aree interne” è quello relativo alle difficoltà di accesso ai diritti di cittadinanza. Sono le aree che un sistema ricco e complesso di indicatori ci permette di identificare come le meno servite dai servizi pubblici di base, quelli che secondo la Costituzione devono essere garantiti a tutti i cittadini italiani nella stessa misura. Per quanto tra loro si annoverino zone ricche, nelle quali esiste un sistema produttivo e manifatturiero molto ben sviluppato, o situate in ambiti periurbani e costieri, ossia nella “polpa” del paese, tutte soffrono di una qualche forma di marginalità, sono esposte a gravi rischi ambientali, presentano difficoltà gravi di accesso alle risorse, alla conoscenza, alle reti economiche, e in molti casi presentano deficit gravi di democrazia, per lo più dovuti alla debolezza dei servizi alla persona, alla perdita della coesione sociale (che in molte aree è il miglior antidoto all’infiltrazione della malavita), alla scarsità di popolazione, che le rende irrilevanti dal punto di vista elettorale.
E, pur non avendo assunto come criterio di selezione alcun indicatore demografico, è venuto fuori che queste zone coincidono esattamente con le aree che più perdono popolazione nel nostro paese. E la necessità di frenare l’abbandono è il tratto che più le rende simili, tanto nella percezione di chi le abita quanto nelle ambizioni di rilancio delle istituzioni.
Dal nostro punto di vista, sembra essere perciò il deficit di cittadinanza, più che il mancato sviluppo economico, la causa dello spopolamento. E’ un ribaltamento di prospettiva, carico di implicazioni tanto per le politiche “spicciole” territoriali, gli strumenti per lo sviluppo, di sostegno alle imprese o di promozione culturale, quanto per un ripensamento complessivo della politica “alta” sulla necessità di un riequilibrio economico e sociale del paese.

Come abbiamo visto alcuni tratti rendono simili questi territori, mentre per altri le differenze sembrano abissali. Tra tutte le distinzioni possibili, ai fini del ragionamento che mi proponi mi preme metterne in luce una in particolare, anche se ancora da mettere a fuoco: una buona parte delle nostre aree sono “aree di servizio”, nel senso che soffrono un più marcato stato di sudditanza rispetto al vicino centro urbano che ne definisce, in maniera rigida, le funzioni, in base alle proprie necessità. Altre assomigliano più propriamente quelle che tu chiami i “margini”, non raggiunte dal piglio “ordinativo” del sistema socioeconomico dominante, e che beneficiano, o in alcuni casi soffrono, di una destinazione incerta.
Per esemplificare, tra le “aree di servizio” ci sono quei territori “vocati” alle gite domenicali, quelle percorse da grandi infrastrutture di attraversamento che avvicinando un polo all’altro, di fatto sono tagliate fuori, o quelle segnate da uno sfruttamento intensivo delle risorse energetiche e da un consumo dissennato di territorio, che ospitano gli scarti della crescita dei consumi urbani, spesso per pochi “spiccioli”. Sono spesso le aree più depresse, dove decenni di politiche compensative e assistenziali hanno prodotto classi dirigenti composte da professionisti del sottosviluppo, ma che in qualche caso sono in grado di trasformarsi in zone fortemente conflittuali, dove i cittadini sono capaci di organizzare in maniera “sindacale” le loro rivendicazioni e aprire fratture profonde con la politica locale (basti pensare alle decine di NOTAV sparse per il paese). In tutti i casi, poca della (talvolta notevole) ricchezza prodotta dalle risorse locali si ferma in loco. I margini, le altre aree sulle quali lavoriamo, sono luoghi dove si aprono spazi per l’innovazione e la sperimentazione per una popolazione solo parzialmente autoctona che, come succede per le piante pioniere “esogene” che ripopolano le malghe abbandonate, torna a ripopolare l’area. E’ una popolazione per lo più composta da giovani “rientranti” o da stranieri, portatori di nuove competenze, spesso tecnologiche, di reti umane e lavorative proprie, di una relazione diversa con l’agricoltura, di cui sembrano cogliere soprattutto la dimensione sociale, e che soprattutto non mostrano nostalgia per un passato idilliaco al quale tornare, non avendolo mai vissuto.

Per tornare alla dimensione più prettamente politica del nostro lavoro, sulla quale mi inviti a ragionare, in questa fase sperimentale esiste soprattutto come “presupposto all’azione”. Il presupposto è che le aree interne oggi rappresentino una riserva di futuro del nostro paese, di risorse materiali, ambientali, energetiche, economiche e culturali, che in virtù dei loro “vuoti” si configurino come spazi di rigenerazione e sperimentazione, di libertà altrove non praticabili, e che proprio per queste ragioni meritino una riflessione specifica e delle politiche dedicate, non solo assistenziali o tutt’al più compensative. In sostanza, tornino ad essere luoghi su cui investire. Per dar loro centralità nella riflessione sul futuro del paese bisogna superare, come dici, la dicotomia centro/periferia, che vede tutto il futuro nei poli e che relega le aree non urbane in una dimensione residuale. Senza voler togliere nulla alla centralità della tradizione civica italiana, oggi puntare solo sulle città significa perdere, e questa volta per sempre, la ricchezza e le diversità dei nostri territori. Abbiamo ormai imparato che centri e periferie non sono isole, e vivono e si definiscono in relazione gli uni con le altre, e sebbene ancor oggi siano ambiti che vengono trattati separatamente, è evidente che in un futuro disegno complessivo per il paese debbano avere pari cittadinanza.

Abbiamo parzialmente rimandato la riflessione sistematica su questi temi una volta finita la fase sperimentale, di raccolta dati e conoscenza della realtà delle aree interne. Questa fase sperimentale oggi riguarda all’incirca venti aree, una/due per regione, dove stiamo lavorando alla messa a punto di “prototipi” da estendere in una fase successiva a tutte le 65 aree interne individuate. E sulla necessità di una riflessione più approfondita abbiamo coinvolto, nel corso degli ultimi due anni vari partners, università, centri di competenze, laboratori di innovazione, organizzazioni internazionali. Sono convinto che tra politica e costruzione di politiche pubbliche, tra scelte di fondo e tecniche di realizzazione, ci debba essere una osmosi continua, un dialogo in grado di riorientare l’una e l’altra.

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Il teatro astronave di Lorenzo Reina, Santo Stefano di Quisquina, Agrigento, 8 settembre 2014 © Filippo Tantillo

A due anni dal lancio della la Strategia Nazionale delle Aree Interne, a che punto è la ricerca? Quali i risultati attesi, quali i disattesi..
Come si evince dai documenti ufficiali, tutti consultabili sui vari siti, la Strategia ha la sua dimensione istituzionale e una più tecnica, che pur lavorando a stretto contatto, hanno obiettivi e “risultati attesi” diversi, anche se convergenti. Il raggiungimento di questi obiettivi è monitorato da una struttura esterna di valutazione, il Gran Sasso Science Institute.
Per quanto riguarda la dimensione istituzionale, il Comitato Nazionale, composto dai ministeri che partecipano della Strategia, le Regioni e i rappresentanti istituzionali dei territori redigono i documenti programmatori che definiscono azioni e carichi di lavoro, nonché la spesa dell’operazione, e che rappresentano le tappe della costruzione della strategia, dalla prima bozza alla firma dell’Accordo di programma quadro, e da un loro relativo cronoprogramma. Ad oggi abbiamo quattro aree che hanno chiuso la loro strategia, e che sono in attesa della firma dell’APQ, e circa una quindicina ad un buon livello di progettazione, ossia hanno individuato priorità e azioni. Su questo fronte posso dire che pur procedendo speditamente, ci confrontiamo, ed è incredibile a dirsi dopo vent’anni e più che si parla di sviluppo locale, con l’approccio “settoriale” della pubblica amministrazione a tutti i livelli, approccio acuito negli ultimi anni dalla necessità della concentrazione e riduzione della spesa, che vede penalizzate le aree poco popolate. Una operazione complessa e molto faticosa, che richiederebbe delle risorse che ancora non si è riusciti a mettere in campo.

A fianco di questa dimensione istituzionale, le apposite strutture tecniche del Comitato, delle regioni e di ciascun territorio sul quale stiamo lavorando fanno qualcosa che assomiglia più ad una ricerca/azione, che noi chiamiamo “cooprogettazione dei contenuti”. Di fatto in ciascun territorio abbiamo costituito una struttura tecnica mista composta da tutti e tre i livelli istituzionali coinvolti, che si da dei suoi obiettivi specifici, sperimentali, e che “informa” continuamente la dimensione istituzionale. Proviamo il percorso molto poco praticato di sperimentare e poi codificare, ci diamo degli obiettivi e individuiamo dei risultati che in qualche maniera consideriamo irrinunciabili, ma questi risultati hanno dei tempi che non sempre riusciamo a prevedere.

Per la prima volta dopo molti anni lo Stato mette piede, attraverso una apposita struttura tecnica, il team che coordino dal punto di vista scientifico, nella costruzione del disegno locale, cooprogetta insieme a sindaci e cittadini, apportando competenze e informazioni, facilitando le relazioni fra estreme periferie e centri decisionali. Gioca un ruolo autorevole e competente, mai paternalista, cercando di assumere il punto dei vista dei luoghi, ponendosi in discussione. Si propone come soggetto superpartes, al di fuori delle rapporti di forza locali, prova a scardinare le posizioni di rendita e promuovere il nuovo. E a gestire i conflitti che questo produce. Nel fare questo scopriamo tesori nascosti, persone eccellenti e pratiche da moltiplicare, ma ci scontriamo anche con le rigidità dei ministeri e le necessità di bilancio delle regioni, con l’immaturità delle classi dirigenti locali, anche dovuta alla ristrettezza degli orizzonti culturali, ma più in generale con l’incapacità, nel nostro paese, di ragionare sul medio/lungo periodo in chiave strategica. Sembra infatti che tra microprogettazione (ad esempio, mettere a posto una strada) e gli ambiziosi disegni contenuti spesso nei documenti di programmazione (il decollo turistico di un’area, sempre per fare un esempio) ci sia un vuoto paralizzante che impedisce di individuare le azioni corrette per rendere realizzabili l’una e l’altra cosa. Proviamo ad aggirare questo problema portando ai tavoli di progettazione soggetti nuovi, pragmatici, mettiamo al centro delle strategie le dinamiche più promettenti che raccogliamo sul territorio, scommettiamo sulle persone, non solo sulle istituzioni, guardiamo le pratiche, non i progetti, valutiamo le esperienze, non le potenzialità. Non ti nascondo che ancora è da vedere se l’aver portato dentro la stanza dei bottoni soggetti nuovi, darà vita, oltre che a documenti in grado di coniugare visione strategica e pragmatismo, a politiche pubbliche a tutti gli effetti. La gestione della fase attuativa, al di là da venire, sarà determinante per valutare la misura del successo dell’operazione.

Valgono ancora i criteri e gli indicatori utilizzati per la loro selezione?
Si, ritengo siano ancora validi, è stato fatto uno sforzo notevole per mettere su un set di indicatori così ricco, in grado di restituire un quadro inedito della composizione territoriale del nostro paese. Il fatto stesso che gli indicatori abbiano permesso di individuare una correlazione diretta fra scarsità di servizi e perdita di popolazione mostra la bontà della strada intrapresa. Ma naturalmente il set è manchevole, e per quanto gli indicatori siano accurati non restituiscono appieno la complessità nella quale ci muoviamo, soprattutto per l’assenza su base comunale di molti dati, spesso disponibili su aggregazioni territoriali diverse. Indubbiamente ci sarebbero molti altri indicatori da mettere in gioco, ci permetterebbero di evitare certe storture e di calibrare ancora meglio gli interventi. Un’attenzione più forte alle dinamiche del mercato del lavoro, alla composizione del reddito, all’economia informale, all’attrattività dei luoghi, alla capacità, di alcuni territori, di mobilitare risorse lontane, alle relazioni con le città. Ma anche strumenti nuovi per misurare il capitale civile dei territori sui quali interveniamo. Sono tutti temi sui quali stiamo lavorando.

Per raccontare e studiare i territori contemporanei e il loro repentino cambiamento, le tradizionali forme di rappresentazione utilizzate dalle scienze – urbanistica in primis – risultano inadatte a restituire la loro complessità, le stratificazioni, le connessioni tra locale e globale, l’interazione tra aspetti micro e macro. Si ricorre così spesso – e so che tu sei particolarmente attento al tema – a nuovi strumenti di analisi, a razionalità sensibili ed estetiche: video, storytelling, mappe interattive e emozionali, pratiche artistiche e performance urbane sono solo alcuni dei dispositivi di indagine e conoscenza, di interpretazione e rappresentazione del territorio.
Sperimentazioni e creazioni usate spesso anche per arrivare a nuove possibili progettualità. Dalla road map che avete percorso, dai territori che avete attraversato, dall’ascolto delle comunità, quanto conta il ricorso e il ritorno ad un ordine simbolico e creativo per la lettura di queste ‘aree di margine’?
Il Team che lavora a supporto della Strategia nazionale per le aree Interne è stato pensato e costruito cercando di dare il massimo rilievo a questi nuovi strumenti di analisi cui fai riferimento. Giovani designers di servizi, esperti in uso alternativo di energia, di processi partecipativi, di managing culturale, degli strumenti di comunicazione, in sostanza dei “marziani” carichi di entusiasmo, sono stati spediti nei territori ad affiancare le comunità montane, gli uffici comunali, le piccole imprese, per sostenere i sogni di quei soggetti presenti in loco, spesso invisibili alla politica, e trasformarli in progetti praticabili utili alla collettività.
Sono queste alleanze inedite, che la Strategia ha costituito attraverso i suoi progettisti sul campo, nelle aree pilota, che ci hanno spinto a ragionare sull’importanza degli “artefatti simbolico-operativi”, come li chiama Marco Rossi Doria, nel rimettere in moto quel ripensamento collettivo dei territori che riteniamo indispensabile per cambiare marcia e invertire, o almeno arrestare, l’assenza di prospettive che porta con se l’abbandono.

Nelle aree interne si percepisce chiaramente una richiesta di ritorno al manufatto, alla produzione a partire dalle risorse locali, alla rilettura anche in chiave artistica e simbolica della storia e della cultura del territorio, che si vede contrapposta al dominio del mercato, dell’economia e della filosofia del trading, percepita come penalizzante per le aree interne. É tutto ciò che sta dietro le decine di proposte di riuso di beni pubblici e culturali, di riconversione dei musei delle arti e tradizioni che sono presenti in molti paesi da luoghi di memoria e nostalgia a fabbriche di nuove soluzioni, di residenze temporanee per artisti chiamati a rielaborare paesaggi, strutture sociali, strumenti di lavoro. Riflessioni che talvolta danno luogo a “retroinnovazioni”, ossia il recupero di attività e competenze tradizionali per nuove finalità, come ad esempio l’uso dei muli per la raccolta differenziata nei vicoli o molto altro ancora. E’ ancora da capire, dal mio punto di vista, quanto queste operazioni siano in grado di superare lo status di “provocazioni”, che comunque producono degli indubbi risultati nel destabilizzare le visione idilliaco/nostalgica dei luoghi, e contribuire ad alimentare speranze di futuro.

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Colle di Mezzo, Chieti, 22 ottobre 2014 © Filippo Tantillo

Nella lettura che Serge Latouche offre di Castoriadis, annoverandolo tra i precursori della decrescita, viene evidenziata la necessità, per stabilire nuove forme di vita sociale che abbiano un senso, di destituire gli immaginari, quei «miti che, più ancora del denaro e delle armi, costituiscono l’ostacolo più forte sulla via di una ricostruzione della società umana».
Personalmente sono anni che lavoro sul tema del “decostruire gli immaginari”, e non per postura ideologica. Per quanto raccontare il passato e progettare il futuro siano attività diverse, dal punto di vista cognitivo si tratta di operazioni analoghe, che usano gli stessi meccanismi di proiezione del presente, avanti o indietro nel tempo. Se non sai raccontarti, o ti racconti male, non sai immaginarti. Nella mia esperienza questo vale anche per i territori, la progettazione peggiore viene proprio da quei posti che non hanno, per i motivi più svariati, l’orgoglio di raccontare il proprio passato, o ne fanno un racconto “scolastico” e stereotipato. Ma operare sul racconto è una operazione di potere, squisitamente politica. Il racconto dei territori legittima una classe dirigente, delle pratiche di potere e relazioni di scambio, facendo leva su una tradizione locale spesso idealizzata, e ha direttamente a che vedere con il concetto di “egemonia culturale” di gramsciana memoria. “Decostruire gli immaginari” è una operazione che difficilmente può esser fatta da una comunità di rentiers, di persone che beneficiano dello status di sottosviluppo nel quale vive un area. Per portarla avanti, c’è bisogno di inserire degli elementi nuovi, dei nuovi vissuti, in comunità che talvolta amano pensarsi come integrate e che invece nascondono differenze spesso notevoli. Un’operazione che inevitabilmente, nella mia esperienza, fa emergere conflitti nella quale i protagonisti sono coloro che, nelle aree interne, hanno superato la subalternità culturale tipica delle aree “residuali”, ossia non provano un senso di inferiorità rispetto alla modernità urbana, e che, come dicevo prima, non hanno un prima a cui tornare. Alcuni di questi sono soggetti che si oppongono, nelle loro attività quotidiane, all’urbanizzazione planetaria”, alla centralità dell’economia commerciale, nella quale la produzione dei beni fondamentali perde valore, e anche l’arte, ad esempio, è ridotta alla sua sola dimensione commerciale e finanziaria. Avendo percorso oltre 40 mila chilometri negli ultimi due anni, ho chiara la percezione, che oggi, nelle aree interne, questi soggetti portatori di conflitto siano in numero crescente, e soprattutto che corrispondano alla quasi totalità dei giovani, che proprio in queste zone, vale la pena ricordarlo, sono per larga parte senza lavoro ne’ prospettive.
Ma non ti nego che è difficile includere la dimensione del conflitto in una politica pubblica che punta alla ricostruzione della coesione sociale in territori ove la fiducia fra i soggetti è ridottissima. Noi tecnicamente proviamo ad acquisire questa radicalità, come motore di cambiamento, e a riportarla nell’alveo del normale confronto che garantiscono (o dovrebbero garantire) le istituzioni democratiche. Di fatto assumiamo il punto di vista del conflitto, da tecnici, perché appare il più produttivo, e perché garantire l’accesso ai servizi fondamentali a tutti, oltre a motivare le persone e gli operatori pubblici coinvolti, sembra produrre risultati migliori in termini di qualità di progettazione.

Quale ruolo possono allora assumere l’arte e la cultura – alla luce anche dei casi che avete incontrato – per re-incantare questi territori apparentemente periferici (ma forse proprio per questo, salvi dalla degenerazione recata dal progresso con il dominio delle ragioni utilitaristiche dell’economia e della tecnica) e riconoscersi e essere terreni di fermentazione ed innovazione?
La connessione fra arte e cultura si sintetizza, nelle nostre aree, nella conservazione del paesaggio, o meglio nella costruzione di un nuovo paesaggio, inclusivo di elementi di modernità. Non a caso, in tutte le aree, nelle scuole ma non solo, stiamo sostenendo gli interventi che vanno nella direzione della formazione di nuove figure più legate al territorio; la scommessa e l’auspicio è quello di poter disporre, tra non molti anni, di una nuova generazione di “giardinieri del paesaggio”, di soggetti, che siano agronomi, o esperti di turismo, sportivi o archeologi, contribuiscano, ciascuno nel proprio specifico, ad una sua ricomposizione. Per il momento tutto sembra passare anche attraverso lo scottante tema della gestione dei beni culturali. Su questo fronte permane forte, in aree interne ma non solo, la tendenza a proporre e riproporre contenitori culturali, la casa della musica, la casa della cultura, dando molta meno importanza alla produzione dei contenuti. E ancor meno a cercare il nesso fra innovazione, gestione beni culturali e nuova cittadinanza, che a noi sembra un pò la ricetta vincente per superare la crisi dei modelli di gestione finora sperimentati. Mi rendo conto di essere un po teorico su questo, ma non abbiamo soluzioni da offrire, e anzi tutta la strategia è pensata come un meccanismo per trovare soluzioni sul campo, nelle pratiche disperse, al di fuori dei grandi numeri. Se abbiamo trovato piccole pratiche interessanti, nelle quali sembra evidente che avvicinare i produttori di contenuti alla gestione sia la strada più promettente, non siamo in grado ancora di ipotizzare percorsi che le rendano realmente sostenibili. Continuiamo a cercare.

Possono allora essere questi luoghi i terreni fertili per la decolonizzazione e ricostruzione di nuovi immaginari, i segni di una rinascita in risposta alla crisi, economica, sociale, di pensiero? Territori dove esercitare spazi di relazione in cui inventare “altri” modi di vita dando vita a una svolta antropologica , che parte con la valorizzazione di quello che si ha, ma che soprattutto – cito Tiziana Villani – “ripensa le pratiche di soddisfazione delle soggettività nel modo indicato da Felix Guattari nelle Tre ecologie (sociale, mentale, individuale)”.
Ci scommettiamo. E proprio per questo siamo molto attenti anche alla dimensione economica a questi “altri modi di vita” di cui parli. Non abbiamo la pretesa di dare una risposta alla crisi di senso che porta la modernità, di cui siamo consapevoli, ma miriamo a creare le condizioni di sopravvivenza materiale nelle aree interne, che oggi non sono garantite. Mi viene in mente un giovane incontrato su uno dei territori sui quali stiamo lavorando, che ha deciso di tornare ad investire nell’azienda rurale di famiglia, e che ci diceva che servono nuove serre per coltivare “relazioni sociali”. La riscoperta della dimensione sociale dell’agricoltura, che vediamo rifiorire dappertutto, è probabilmente una delle cose più nuove nel panorama del nostro paese, ma è dovere di una politica pubblica occuparsi anche della dimensione tecnologica, e quindi della rivalutazione del lavoro nei campi, e produttiva. Sosteniamo l’idea che sotto le serre si coltivino relazioni sociali, ma ci preoccupiamo anche che ci siano lavoro per produrre fragole e competenze per venderle.

Bibliografia di approfondimento:
Caldelli A., Tantillo F., 2006, Narrazione e sviluppo dei territori. Trento: Edizioni Erickson.
Ciaffi D., Mela A., 2014, La partecipazione, Dimensione, spazi e strumenti. Roma: Carrocci.
Consiglio S., Riitano A., 2015, Sud innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale e nuova cittadinanza, Franco Angeli
Clément G., 2005, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet
DPS, 2006, Lo sviluppo ai margini. Roma: Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Ervet, 2009, Nati per combinazione. Risorse chiave e meccanismi generativi di beni pubblici locali nella montagna dell’Emilia-Romagna. Regione Emilia Romagna.
Lucatelli S., Peta E.A, 2009, L’offerta dei servizi alla persona nelle aree interne della Calabria. Ascolto del territorio e innovazione della Policy. Roma, dps.
Salmon Ch., 2008, Storytelling, la fabbrica delle storie. Roma: Fazi.
Sen A.K. 1985, Commodities and Capabilities. Oxford: Oxford U.P.
Barbera F., Dagnes J., Salento A., Spina F. (A cura di) 2016, il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Donzelli
Un’agenda per la riforma della politica di coesione. Una politica di sviluppo rivolta ai luoghi per rispondere alle sfide e alle aspettative dell’Unione Europea
Rapporto indipendente – Predisposto nell’aprile 2009 su richiesta di Danuta Hübner, Commissario europeo alla politica regionale, da Fabrizio Barca

 

Pubblicato da Il giornale delle fondazioni il 12 Ottobre 2016

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