Incanto e disincanto della notte. Sette quadri su letteratura e illuminazione cittadina (seconda parte).

30 dicembre 2017 9:45 di jazzi
Incanto e disincanto della notte. Sette quadri su letteratura e illuminazione cittadina è un racconto in due parti. La prima parte si può leggere qui.

di Paolo Zanotti

Black-out e coprifuochi. Nel Novecento l’illuminazione elettrica trionfa. Come succede a ogni mutamento tecnologico, questo avviene tra entusiasmi e apprensioni: la luce elettrica sembra troppo fredda, disumana, se confrontata con quella a gas. Stevenson, scrivendo in occasione dell’esperimento di illuminazione elettrica di Pall Mall, aveva evocato «a new sort of urban star […] horrible, unearthly, obnoxious to the human eye; a lamp for a nightmare! Such a light as this should shine only on murders and public crime, or along the corridors of lunatic asylums». Una luce insomma che porta al massimo grado di perfezione le funzioni di controllo da sempre associate con l’illuminazione pubblica. Non a caso, l’associazione tra una luce elettrica fredda e diffusa e un controllo disumano sarà ricorrente nel genere distopico. Le celebrazioni dell’elettricità invece faranno leva sulla consueta retorica della vittoria dell’uomo sulla natura, della sostituzione totaledella luce naturale con quella artificiale, più efficace e più moderna.

Eppure si può anche dire che la prima metà del Novecento, insieme alla prima illuminazione notturna efficace, riscopre l’esperienza del buio della notte cittadina. Questo per due motivi molto diversi. Il primo è dovuto proprio all’elettrificazione. La centralizzazione nella distribuzione dell’energia elettrica può infatti causare black-out improvvisi e di grande estensione. Il secondo motivo della riscoperta del buio è l’esperienza delle notti di coprifuoco durante le due guerre mondiali. Per quanto diverse, queste due esperienze contribuiscono entrambe a ricreare momentaneamente l’esperienza premoderna della notte come terra incognita, luogo di incanti e di terrori.

Queste esperienze di ritorno dell’oscurità possono essere vissute sia come euforiche che come terrorizzanti. Il black-out, essendo inatteso, più facilmente come terrorizzante. Lovecraft sfrutta ingegnosamente la paura del black-out in uno dei suoi ultimi racconti, The Haunter of the Dark (L’abitatore del buio, 1935). Il protagonista del racconto, lo scrittore Robert Blake, si trasferisce a Providence in una casa da cui gode la vista di una sinistra collina, coincidente con il quartiere italiano, in cima alla quale spicca una sinistra chiesa neogotica abbandonata da anni. Penetrando nella chiesa, Blake risveglia una mostruosa creatura relegata nella torre. Da quel momento, ogni notte la creatura scende nella navata, ma non riesce a uscirne perché bloccata dalle luci della città. Su Providence però si scatenano violenti temporali. La comunità italiana, che conosce le tradizioni a proposito del mostro della torre e si è accorta del suo risveglio, circonda la chiesa con ombrelli e luci improvvisate («men […] with umbrella-shaded candles, electric flashlights, oil lanterns, crucifixes»), per paura di un black-out. Robert Blake invece scruta la chiesa dalla sua finestra e telefona ripetutamente alla centrale elettrica per avere notizie su eventuali black-out. L’ultimo temporale è però così violento da spegnere anche le lampade degli italiani, così che il mostro può finalmente uscire nell’oscurità.

Occorre sottolineare che il testo di Lovecraft presuppone comunque un’abitudine ormai consolidata alla luce elettrica. Se la storia delle tecnologie di illuminazione artificiale coincide con un allontanamento dalla fiamma – con tutte le connotazioni a essa connesse di spiritualità, vitalità, calore –, allora non è affatto scontato che la luce elettrica – la più lontana, per assenza di combustione, dalla fiamma originaria – sia efficace nel tenere lontani gli spiriti maligni quanto il fuoco o la luce del sole.

Quanto ai coprifuochi, è molto frequente che essi vengano rappresentati in letteratura in modo euforico, per ripristinare momentaneamente un tempo d’avventura. Così avviene per esempio nelle Notti dell’Unpa (1954) di Calvino. Il caso più famoso è però un episodio del Temps retrouvé (Il tempo ritrovato, 1927). Marcel racconta di varie notti di guerra nei suoi ritorni a Parigi, e le paragona significativamente a quelle della sua infanzia a Combray. L’episodio della notte romanzesca avviene invece nel segno delle Mille e una notte: «me perdant peu à peu dans le lacis de ces rues noires, je pensais au calife Haroun Al Raschid». Marcel si muove in una Parigi buia e avventurosa come quella di Marius nei Misérables, ma i suoi incontri saranno ben diversi. Al posto delle deboli luci della barricata, infatti Marcel avvista uno strano edificio:

Je n’en fus que plus surpris de voir qu’entre ces maisons délaissées, il y en avait une où la vie, au contraire […], entretenait l’activité et la richesse. Derrières les volets clos de chaque fenêtre la lumière tamisée à cause des ordonnances de police décelait pourtant un insouci complet de l’économie.

All’inizio ipotizza che i frequentatori della casa siano militari, spie. Decide però di entrarvi. In qualche modo, Marcel si sente investito del ruolo di nuovo Harùn:

Tout cela pourtant, dans cette nuit paisible et menacée, gardait une apparence de rêve, de conte, et c’est à la fois avec une fierté de justicier et une volupté de poète que j’entrai délibérément dans l’hôtel.

In questo mondo notturno di scoperte ed equivoci ripristinato dal coprifuoco Marcel assisterà di nascosto ai piaceri masochistici di Charlus.

Dan Holdsworth, Coprifuoco.

Dan Holdsworth, Coprifuoco.

Architettura immateriale e nostalgia del buio.L’illuminazione è un elemento fondamentale della città postmoderna: la sua organizzazione illusionistica degli spazi infatti può facilmente cooptare la luce in funzione propriamente architettonica (si usa parlare a questo proposito di ‘architettura immateriale’). Del resto, l’illuminazione artificiale è sempre stata usata già a partire dall’Ottocento per imporre una chiave di lettura della città, illuminando spazi e monumenti privilegiati. Nessuna altra epoca però aveva mai pensato di porre una ricostruzione luminosa al posto delle Twin Towers o di ripristinare una tecnica di illuminazione superata per ricreare – con un tipico effetto postmoderno di nostalgia – l’atmosfera di un quartiere del centro storico.

L’illuminazione notturna però oggi viene sempre più percepita anche come disumanizzante, almeno nelle grandi città. Il cinema, in particolare, ci ha abituato a questo tipo di rappresentazione: si tratti di notturni metropolitani attraversati soltanto dai fasci di luce delle automobili, oppure di metropoli future stile Blade Runner (1982), dove la distinzione notte-giorno è abolita a causa della pioggia incessante e le uniche luci consistenti sono quelle della pubblicità.

Douglas Coupland ha sinteticamente espresso una sorta di nostalgia contemporanea del buio: «During power failures we sing songs, but the moment electricity returns, we atomize». I black-out quindi non servono più a reincantare la notte, ma, più modestamente, a farci stare più vicini. Altri scrittori hanno trattato questa nostalgia in modo più ironico. Nella sezione finale di England, England (1998) di Julian Barnes, l’utopia preindustriale di «Anglia» prevede ovviamente l’abbandono dell’illuminazione artificiale, ma Anglia stessa è rappresentata come un luogo artificiale. Altrettanto sarcastico – nonostante il tono fiabesco – è forse un racconto fantascientifico di Paul Di Filippo: Streetlife (Vita di strada, 1993). In esso un piccolo servo artificiale percorre nella notte un itinerario degno di Cappuccetto rosso: per consegnare una speciale droga, deve spostarsi da un quartiere ricco a un altro quartiere ricco passando attraverso una Zona interdetta e oscura, abitata da mutanti. Ora, nei quartieri ricchi il sistema di illuminazione è il seguente: una specie di sciame di lucciole artificiali circonda il passante, per poi abbandonarlo alle soglie di un nuovo quartiere. Questo può ricordarci i portatori di fiaccole affittabili dei secoli passati, ma comporta più in generale la rappresentazione di un ritorno a un’idea se non privata (medievale) quantomeno non pubblica dell’illuminazione degli esterni. La città futura di Di Filippo, divisa in settori dove l’illuminazione notturna è gestita autonomamente e dove al posto di un’opposizione centro-periferia abbiamo la contiguità di blindate zone ricche e inquietanti zone oscure abitate da mutanti, è in realtà implicita in realtà urbane come quella dell’odierna Los Angeles.

Pubblicato da Le parole e le cose il 25 Agosto 2015.

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