Proprietà privata e diritti di natura: ovili e cammini

25 ottobre 2016 8:59 di jazzi

Di Luca Gianotti

Sono appena tornato da un cammino nella wilderness della Sardegna, con gli occhi ancora pieni di ginepri, pietre luccicanti, sentieri aerei e affacci su scogliere strapiombanti sul mare blu. E nel corpo sensazioni di indolenzimento di muscoli e ossa che mi ricordano lo zaino, e i sentieri sconnessi dove ogni pietra sembrava messa apposta per rotolare sotto i miei piedi.
Coi miei compagni di viandanza abbiamo dormito in una grottone affacciato sul mare, sulla morbida sabbia, in un ambiente non umido e protetto come un ventre materno, mentre la luna ci illuminava con una striscia verticale sul mare, e all’alba il sole ci svegliava illuminando la grotta di rosa; i rondoni erano già svegli da un po’ , e gridavano e volavano dentro e fuori dalla grotta, dentro e fuori dai loro nidi.
Abbiamo dormito negli ovili dei pastori del Supramonte, ancora oggi costruiti con pietre calcaree e tronchi di ginepro, ancora oggi luoghi accoglienti in cui uomini e animali (capre, pecore, maiali, mucche) convivono. I pastori conoscono la loro terra, e la rispettano. Ogni albero, prima di abbatterlo, i pastori si chiedono se è giusto oppure no. Lo tagliano solo quando è strettamente necessario. Per costruire gli ovili usano tronchi secchi, per fare il fuoco nel camino usano rami secchi, il territorio ne è pieno, e i pastori sanno ancora camminare, sanno ancora portare pesi, sono uomini antichi. Da uomini antichi vanno spesso a caccia, non perché gli serva per vivere, ma per gioco, un gioco tutto maschile per affermare la propria forza e dimostrare ai compari chi è il più bravo.
Abbiamo dormito per terra, sotto alberi di leccio, per proteggerci dall’umidità notturna, annusando il profumo della terra e gli odori degli animali intorno. Ci siamo riscoperti selvatici, e nessun hotel a cinque stelle avrebbe mai potuto darci le stesse emozioni profonde, che scavano nella nostra storia antica.

In Sardegna vige ancora adesso nelle aree del Supramonte e della Barbagia una legge legata alla tradizione e al rapporto con la natura, che è il codice barbaricino. Un sistema di norme non scritte, un codice di autoregolamentazione sociale per la comunità pastorale basato sul buon senso. Nelle culture pastorali la proprietà era indivisa. La proprietà privata nella storia dell’umanità arriva sempre dopo, arriva con chi pianta semi, i contadini.
In Sardegna questo codice antico fu messo su carta (la Carta de Logu) nel 1402, da un giudice donna, Eleonora d’Arborea, che riprese le norme tradizionali e ne fece un diritto all’avanguardia. Come racconta Michela Murgia nel suo Viaggio in Sardegna, in base a queste norme ogni villaggio aveva un proprio territorio, chiamato significativamente fundamentu, suddiviso in due parti entrambe di proprietà della collettività. La destinazione d’uso di queste due parti ruotava saggiamente anno per anno, alternando pascolo e semina. Ma tutto fu cancellato dagli invasori, che portarono le leggi feudali, i sabaudi e la loro maledetta legge delle chiudende che nel 1820 frantumò il terreno agricolo sardo e rese tutti più poveri.
Non i pastori, però, perché grazie a loro la proprietà in montagna è rimasta indivisa ancora oggi.

Come sarebbero oggi questi ovili di ginepro e sassi se ci fosse la proprietà privata? Sarebbero ruderi, rimangiati dalla vegetazione, rovi di salsapariglia, lentischi e filliree. Coloro che li costruirono sarebbero morti o immigrati da tempo. I loro figli non avrebbero continuato l’arte dei padri. Oppure li avrebbero trasformati in altro: una bella casetta di cemento anni sessanta, con avvolgibili e finestre di alluminio anodizzato. Oggi in Sardegna, in questa parte della Sardegna barbaricina, dove i cuili di ginepro e sassi sono della comunità, un sapiente progetto di recupero ridà vita regolarmente agli antichi ovili, li salva dal tempo che distrugge: con i soldi pubblici un architetto li ripristina e ora sono un museo all’aperto, raggiungibile a piedi solo da chi i sentieri li sa camminare.

Pochi anche tra i pastori sentono il legame con questo codice antico. Molti vorrebbero che la proprietà indivisa fosse cancellata, vorrebbero sentirsi proprietari “esclusivi” di quei quattro sassi. Pensano di essere immortali, non pensano che finché sono in vita ne hanno il diritto di uso esclusivo. E anche i loro figli, finché salgono allo stazzo e ci vanno a lavorare.
È un errore lasciare le antiche leggi, leggi così legate alle leggi di natura da esserne diretta emanazione. Sono leggi che vengono dai popoli nuragici, sono leggi che nel resto d’Italia vengono dai popoli italici, quelli che hanno costruito la nostra civiltà, ma sono poi stati spazzati via dall’egoismo protocapitalistico dei Romani. Non esiste solo il “gene egoista”, come affermava Richard Dawkins, ma anche il “gene altruista”, come dimostrano recenti studi sulle scimmie. Anche se l’uomo sta negando questo, crede solo nelle leggi del libero mercato, della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza, nella competizione estrema, nella proprietà privata. Tutti valori, ideali e teorie economiche che sono falliti, non ci hanno portato benessere ma soprattutto non ci hanno portato felicità, siamo la cultura della falsa opulenza disperata.

Parliamo allora del diritto di ogni uomo di camminare sulla terra. È un diritto che nei paesi nordici è sancito dalla costituzione. In Norvegia, Svezia, Finlandia, Scozia, l’Allemansrätt è il diritto di ogni uomo calpestare la terra. Anche se è proprietà privata. Nel senso che in Svezia o in Norvegia se io non danneggio alcunché, posso passare su un prato privato, e anche piantarci la tenda per una notte. In Italia solo i cacciatori possono farlo, quasi in barba al diritto che riconosce al proprietario il diritto di esclusione (la terra è mia e sono l’unico che può goderne). È questione anche di status symbol, nella cultura nordica c’è più senso di condivisione mentre in quella italica sentirsi unici utilizzatori ci fa sentire più forti e potenti (il “gene egoista”). È giunto il tempo che anche in Italia si rifletta su questo. Wu Ming 2 ne ha parlato in modo molto approfondito e documentato nel suo ultimo libro Il Sentiero Luminoso (Ediciclo 2016). Una delle due frasi citate nell’esergo del libro di Wu Ming è “Camminare è il contrario di possedere”, lo scrisse Rebecca Solnit (presumo nel suo Storia del camminare). Per noi camminatori è sempre più difficile viandare liberi, a causa delle proprietà private che sbarrano il passaggio. Passare su un prato incolto, non recintato, senza fare danni, senza violare la privacy del proprietario, è così difficile da accettare? C’è da rivedere la mentalità di ognuno di noi, il nostro concetto di proprietà, e c’è poi da rivedere la legislazione. Nella direzione di una legislazione simile a quella dei paesi scandinavi e anglosassoni, dove la proprietà del terreno non è un concetto così escludente, i camminatori sono accettati nel loro fugace transito, perché male non fanno e le costituzioni ne tutelano questo passaggio.
Se ci confrontiamo con le leggi di natura, con i codici antichi che da queste traevano vita, possiamo accettare che sia diritto dei proprietari impedire anche il semplice passaggio? È diritto dei viandanti passare sulle proprietà non recintate? Perché i cacciatori hanno questo diritto e i camminatori senza fucile no? Perché il diritto dei paesi scandinavi stabilisce un concetto di proprietà basato sull’utilizzo, mentre quello italiano anche sull’uso esclusivo?
È ora di cominciare a cambiar rotta, veleggiando verso il nostro gene altruista.

Ps: Wu Ming 2 e il sottoscritto hanno dibattuto pubblicamente sul tema dell’Allemansrätt al festival Itacà di Bologna, nel maggio 2016, potete ascoltare la registrazione qui.
Pubblicato da Doppiozero il 9 Ottobre 2016.

 

In copertina: Andy Goldwworthy, Dandelion Flowers Pinned with Thorns, Cumbria 1985.

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