di Gianluigi Ricuperati
Esistono ancora luoghi inesplorati sul pianeta? Esiste ancora un buon motivo per viaggiare? Esistono ancora delle concrete possibilità di Aventura, come ha intitolato la sua splendida mostra d’esordio europeo uno dei migliori giovani artisti italiani, Renato Leotta, a Lisbona, alla Galleria Madragoa? Una delle opere più interessanti di Leotta è costituita da una serie di teli dipinti di blu e immersi a diverse profondità nell’Oceano Atlantico, e immediatamente tirati fuori dall’acqua, un movimento che lascia depositare il sale come una linea d’orizzonte, a diverse altezze, lungo la superficie del telo. Mi pare che con la consueta (ma sempre unica) capacità rabdomantica degli artisti, quest’immagine, quest’idea, riassuma alla perfezione la potenza di una chance – la chance di farsi annegare dall’ignoto, di farsi allagare dal senso esotico di ciò che non sappiamo ancora, di ciò che non è ancora localizzato lungo il geoide del conoscibile, del calcolabile: l’orizzonte bagnato e salino di quei teli blu possiede la qualità di ricordarci quanto sia radicato in noi il bisogno di anelare all’altrove assoluto – in un cosmo meravigliosamente descritto dagli scienziati e dai numeri, con sempre maggiore esattezza, con sempre più nitore e nettezza. Ma chi sono, oggi, i cantori dell’altrove assoluto? E chi sono i loro progenitori? E che futuro hanno le esplorazioni che tanto ci facevano incantare di fronte a uno dei più strani best-seller del Novecento, Il mattino dei maghi, di Pauwels e Bergier – che proprio così (“Alcuni anni nell’altrove assoluto”) intitolavano uno dei capitoli più importanti – e che venne pubblicato all’alba dell’era contemporanea, nell’ottobre del 1960, in un’austera edizione Gallimard che in un pomeriggio di novembre mi osserva dagli scaffali assieme a due libri usciti da poco, Atlas Obscura: An Explorer’s Guide to the World’s Hidden Wonders e Atlas of Improbable Places. Ecco i padri, ecco i figli. In comune, a distanza di quasi sessant’anni, la passione improrogata per le mappe, stemma e stigma di tutto la ragione e di tutto il mistero del mondo.
Le mappe sono forse il più grande risultato della mente geometrica, cartesiana, illuminista, ma sono anche disegni carichi di mistero, perché il mondo non è un progetto bidimensionale, e per quanto sappiamo che dietro il muro della nostra stanza c’è soltanto un altro muro e un’altra stanza, la potenza del mistero è iscritta nei nostri sensi, nell’impalcatura stessa del nostro stare sul pianeta. L’uomo sapiens sapiens ha bisogno di misurare tanto quanto ha bisogno di fantasticare, e la geografia è sempre stata una delle più fedeli alleate di questo matrimonio di conoscenza.
Prima di Atlas Obscura: An Explorer’s Guide to the World’s Hidden Wonders (Joshua Foer, Dylan Thuras e Emma Morton) e Atlas of Improbable Places (testi di Travis Elborough e mappe di Alan Horsfield, 2016) era uscito qualche anno fa un fortunato volume di Judith Schalansky, Atlante delle isole remote – cinquanta isole che non ho mai visitato, e che mai visiterò, un piccolo capolavoro di cartografia narrativa, e insieme di una collezione piuttosto intrigante di storie, alcune già note altre davvero inaudite, e nel suo insieme un’integrazione superba di linguaggi diversi: una rilegatura di idee, un’invettiva pratica contro l’idea stessa di isola (al che val la pena di ricordare Nessun’isola è un’isola, il bellissimo saggio di Carlo Ginzburg, che in certa parte di questi giovani esploratori del bizzarro è un po’ lo zio colto, insieme accademico e anti-accademico, con la sua trentennale ricerca di ‘microstorie’, titolo di una grandiosa collana storica einaudiana che metteva in luce episodi minori, protagonisti annichiliti dalla Versione Ufficiale e rivoli o vicende macinati ed emarginati dal Fiume Storiografico Principale).
Atlas Obscura (che ha tra gli altri il merito di essere un vero progetto editoriale del XXI secolo, allo stesso tempo sito web, libro, newsletter, magazzino narrativo sui social network, comunità) è esattamente questo: un invito a evadere dal Fiume Geografico Ufficiale, perlustrando il mondo con strumenti spaziali e temporali, in lungo e in largo, dagli spazi urbani più inusitati e arcani fino alle groenlandie piccole e grandi sparse per il pianeta, dalle colonie di insetti giganti al largo della Nuova Zelanda al minuscolo appartamento nascosto ai piani alti della Torre Eiffel.
The Atlas of Improbable Places compie un’operazione non dissimile, anche se è per certi versi più tradizionale: immagini e parole, mappe e storie: tunnel fantastici, parchi immaginari e angoli sorprendenti di cui non ci siamo mai accorti prima. Rispetto ad Atlas Obscura c’è un’ambizione letteraria più evidente, e un’accuratezza che lo posiziona su un piano più alto della scala che separa il Middle-brow e l’High-brow, secondo la classica distinzione che divide le opere per la loro intenzionalità, consapevolezza e ambizione estetica (Alto e Basso, Colto e Pop non rendono con precisione la differenza tra i due termini).
Entrambi i libri devono molto a un pioniere della cultura sofisticata on-line, e una delle persone più curiose e interessanti che abbia mai conosciuto: Geoff Manaugh, inventore del blog BLDGBLG, partito come sito di architettura ed evoluto successivamente in un caleidoscopio di racconti e idee su tutto ciò che produce meraviglia nel mondo reale, controllato e verificabile in cui viviamo. A sua volta Manaugh deve molto a J.G. Ballard, che per primo ha elaborato un’estetica “interiorista” della fantascienza (l’impulso estetico e psichico che avvince molti lettori ai dispacci di Atlas Obscura non è molto diverso da quello degli avidi appassionati di sci-fi), secondo cui le cose più strane, le stranger things, avvengono nello spazio interno abitato dall’umano, più che nelle distese interstellari. Certo, si potrebbe obiettare che gli atlanti e le guide di viaggio avventurose di cui stiamo scrivendo vadano proprio nella direzione opposta, aspirando all’epica di una nuova lussuria geografica, ma è anche vero che molti di questi “luoghi improbabili” e scrigni oscuri sono in realtà sotto i nostri occhi, a volte sotto le nostre scarpe, tutt’altro che distanti, draghi addormentati capaci di svegliarsi a un piccolo richiamo del nostro sguardo.
Pubblicato su Rivista Studio il 15 Novembre 2016
In copertina: Eduardo Chillida, Elogio dell’ Orizzonte, Gijon, 1990.