Camminare il tempo

11 dicembre 2016 11:57 di jazzi

di Maurizio Sentieri.

 

“Il viaggio non solamente allarga la mente: le dà forma.”

Non c’è aforisma più netto di quello di Bruce Chatwin nel descrivere i mutamenti – biologici, quasi “cellulari” – che hanno origine nella persona durante un viaggio, particolarmente se il viaggio è condotto a piedi come certamente lo intendeva Chatwin.

Una sensazione, che, quando provata, sembra avere la capacità di riconnetterci a una parte della nostra natura fino a quel momento dimenticata.

Ma quali nomi dare a questa sensazione, quale tentativo di spiegazione, anche solo di contaminazione…?

 

Dobbiamo ad Albert Einstein il concetto di spazio-tempo, che si è andato ad affiancare a quelli “da sempre” comunemente vissuti di spazio e di tempo. Un concetto “culturalmente alto”, sfuggente e soprattutto ostico per chiunque lo avvicini una prima volta. Sfuggente, ostico ed anti-intuitivo sebbene appartenga con evidenza alle leggi del mondo fisico.

 

 

 

Eppure, lontano dalla dimensione solo razionale e dagli abissi logici della relatività lo spazio-tempo può essere forse anche la “forma” da dare a un’esperienza umana concreta, sebbene sia stata trasfigurata dentro nomi e sentimenti diversi, nelle arti, nella letteratura, nella religione…

Una sensazione che diventa esperienza e sentimento comune con il cammino. Non si cammina mai solo un luogo, ma si cammina attraverso il respiro delle stagioni, il mutare dell’ambiente e dei nostri stessi cambiamenti, attraverso la propria memoria, attraverso i segni e la memoria delle altre generazioni. Solo il cammino sembra in grado di unire in un’unica esperienza fisica lo spazio e il tempo. Nessun altro tipo di movimento può restituire questa sensazione, anzi, maggiore è la velocità, più la percezione se ne allontana.

 

 

Non lo fa l’auto o il treno, tanto meno l’aereo, e forse una sintesi minima della modernità potrebbe essere quella dell’epoca che annulla gli spazi, che li scinde dal tempo. Contemporaneità non è stata e non è ancora la parola d’ordine della modernità? Tutto avviene in tempo reale e la conseguenza è che ogni luogo si assomiglia, e non solo per le contaminazioni della globalizzazione.

La scissione dello spazio dal tempo è del resto “invenzione” che dobbiamo all’agricoltura, ed è conseguenza inavvertita della rivoluzione neolitica, circa diecimila anni fa. Nel coltivare e conservare cereali non ci assicuravamo solo un nuovo più vantaggioso modo di sopravvivenza; ci donavamo anche un’idea di un tempo senza lavoro e senza movimento mentre la sedentarietà, dovuta alla scelta dei campi e dei silos, scindeva il luogo dove vivere dal viaggio e dal movimento. Il luogo era diventato l’elemento vitale, sostituendo il movimento a cui avevamo affidato fino ad allora il nostro destino di cacciatori-raccoglitori. “Lavita è adesso e altrove” aveva scandito sino ad allora il nostro tempo, il nostro cammino, e improvvisamente diventava “la vita è qui, adesso e per sempre“. Così, scegliendo la civiltà, inconsapevolmente rifiutavamo anche parte della nostra profonda natura. Era avvenuta la separazione tra le civiltà degli agricoltori e le società degli pastori: Caino era diventato avversario di Abele che restava il prediletto del Signore.

 

Solo contaminazioni dicevamo…eppure camminare può essere ancora l’azione più naturale che possiamo fare per riavvicinarci alle nostre origini e alla nostra antica natura. Il cammino per il benessere, il cammino come metafora della vita, il cammino come una sorta di preghiera che ci riavvicina al divino, … in mezzo da qualche parte, c’è anche qualcosa che aspetta un nome e che forse altro non è che l’esperienza e il sentimento dello spazio-tempo?

Pubblicato su Doppiozero l’11 Dicembre 2016.
In copertina: Luigi Ghirri
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