Sentieri Lenti (parte seconda)

30 dicembre 2016 11:21 di jazzi

di Mario Porro.

L’epoca dei grandi viaggi prepara il terreno su cui si edifica la modernità: varcare gli oceani lungo archi di grandi cerchi, uscire dalla foresta seguendo una linea retta senza scorgere il ramo d’oro, equivale a gettare nell’oblio, a dissolvere, l’abito d’Arlecchino del paesaggio, annullare il locale nel globale universalizzato. Nello spazio reso omogeneo dal governo di un unico dio, la Ratio lineare scopre leggi valide per ogni latitudine: «Chi avrebbe potuto credere, nel corso dell’Antichità, all’esistenza di una legge universale, quando nessun ulivo si torce allo stesso modo e nessun colpo di vento assomiglia a quello della vigilia?» (Michel Serres). La mappa della modernità è lo spazio cartesiano, bianco e privo di curvature, dove le uniche differenze sono quantitative: possiamo così tracciare traiettorie senza ostacoli, nel vuoto in cui valgono le leggi della dinamica newtoniana. La mappa non è il territorio, si sa; ma qui la mappa cancella il paesaggio, insieme ai luoghi che il politeismo pagano faceva brulicare di differenze. Il pagus latino, circoscrizione rurale a cui era affidata la manutenzione di strade e beni comuni, boschi e pascoli, era anche luogo di culto, talvolta trasformato in pieve nell’epoca cristiana. Il paesaggio era pagina di pagine, esuberanza di differenze non sconfitte dalla reductio ad unum; e viaggiare fra i sentieri dell’orto o nell’intrico del bosco poteva riservare più sorprese che una navigazione verso l’Oriente esotico o lungo le rotte degli spazi siderali.

E se fosse il paesaggio il modello che meglio illustra la complessità del reale? Oggi lo si può leggere attraverso le formalità astratte della geometria qualitativa dell’anesatto, grafi e catastrofi, frattali e nodi; e le varietà della topologia (topos, il luogo appunto, in origine analysis situs) non ignorano la ricchezza della molteplicità sensoriale. Possiamo così trovare nuovi equilibri tra il mondo ed il luogo, tra il cosmo e il focolare, dare sostanza al sogno del Roland Barthes de La camera chiara (e di Calvino) di una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto. La modernità ha inseguito il suo paradigma nell’astronomia: nello spazio cosmico, contenitore uniforme, si disponeva il sistema del mondo, centrato o in espansione verso l’infinito.

 

E se fosse la geografia il nostro nuovo paradigma? La geografia in senso letterale, scrittura della terra su di sé, ricorda Serres: sono le cose stesse a lasciare impronte le une sulle altre, a scrivere sulle pagine del mondo, prima che lo facciano gli umani, i contadini su tutti. Trascinate dai torrenti e dal loro peso, le pietre incidono le rive e disegnano il fondovalle, il vento erode le coste, il ghiaccio spezza gli alberi: le cose disegnano il proprio intarsio sulla carne del mondo. Chi scrive? L’acqua, la neve, il granito, il sole, scrivono sul marmo, sulla flora e la fauna, riempiono la terra di rughe. Il paesaggio così disegnato forma orologi che misurano l’usura del tempo, s’ingombra di ricordi, colleziona monumenti, ed ogni luogo è portatore di memoria. La geografia precede la storia, ricordava Fernand Braudel, e la condiziona: la geografia, scienza dura delle cose dure, abita il tempo inteso come durata; la storia, successiva e leggera, comincia con la scrittura, incisione del dolce (soft) sul duro (hard), e apre l’epoca del Verbo/logos. Lo spazio euclideo e cartesiano, universo omogeneo della comunicazione, governato dalle leggi universali della scienza, si fonda sullo spazio topologico dell’abitante, habitat concreto dove si stringono relazioni di vicinanza, carico dell’esuberante ricchezza dei dettagli qualitativi.

La randonnée riconosce i luoghi e assembla i pagi, seguendo un cammino intricato, di svolte, pause e digressioni; il locale ha contorni indefiniti, la sua singolarità incontra frontiere e ostruzioni, punti di singolarità dove brulicano in folla narrazioni che portano memoria di passate circostanze. Le mappe tracciate da una ragione riconciliata, che sa connettere il globale al locale, conservano la topologia fine di luoghi molteplici, dove terre seminate, vigne, alberi da frutto si mescolano ai profili delle case. Un pensatore dalla cultura ibrida, Yi Fu Tuan, in cui le tradizioni della Cina antica convivono con la modernità degli Stati Uniti, invita a “sentirsi a casa nel cosmo”, a promuovere l’ideale di un focolare cosmopolita, di un universalismo saturo di differenze. La topophilia, l’amore per il luogo, riconcilia il chiaroscuro avvolgente della prossimità del familiare (sede di Hestia, la dea del focolare), e lo spazio potenzialmente illimitato, dai confini sfumati, su cui transita Ermes, il messaggero angelico.

Il cammino esodico attraverso il paesaggio richiede lo sguardo attento del camminatore che sa apprezzare le virtù della lentezza. Passata l’infanzia di lunghe camminate dove era il corpo intero ad immergersi nei luoghi, passata l’adolescenza in bicicletta dove allo sguardo si aprivano scorci ignoti, campi di grano e filari di gelsi, profili prealpini e visioni di borghi in collina, la mia generazione ha conosciuto il paesaggio dai sedili del treno e delle automobili. Dalla postazione stabile, che non richiede sudore né dispendio energetico, osserviamo immagini scorrere sullo schermo. Anche nelle vesti di turisti siamo entrati nel mondo della rappresentazione: di un paese conosciamo i frammenti conservati dalle foto scattate nei momenti di sosta del viaggio. Bergson ricordava che “mille fotografie di Parigi non sono Parigi”: l’esperienza di una passeggiata nella città non potrà mai venirci restituita dalla successione discontinua delle cartoline dei luoghi da cui siamo passati: la continuità del vagabondare è carica di tonalità affettive, la sua durata è arricchita di emozioni e fascinazioni estetiche. Percorrendo l’autostrada o sul treno ad alta velocità, concediamo un occhio distratto allo spettacolo del paesaggio, ma non è solo lo spazio che scorre di lato a divenire fuggitiva parvenza, è anche il presente (quello che la saggezza della lingua fa equivalente al dono) a fuggire via. O meglio, il presente viene sottratto alla continuità del tempo: «l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa ad un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro […]; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». Quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, il suo corpo è fuori gioco, la velocità a cui si abbandona si fa immateriale: si produce così uno «strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi» (Milan Kundera).

Per guadagnare tempo e giungere alla meta, dobbiamo tralasciare quel che resta ai margini del cammino, della vita diritta e diretta che abbiamo scelto. Nella guerra contro il tempo, i vincitori non sanno quello che perdono. Così, quando entriamo in una foresta o in un bosco, non è solo la vastità dello spazio e la difficoltà di trovare riferimenti a turbarci, è anche l’esperienza di una durata che non si misura sulle clessidre delle nostre esistenze. «Le foreste portano la firma del tempo e dell’eternità», ha scritto Holmes Rolston III, uno dei massimi interpreti dell’etica ambientale statunitense; esse consentono d’incontrare un tempo grandioso, un passato (pre)storico, di valutare su di una scala che non ha rapporto (ratio, appunto) con le nostre abitudini e pratiche. È l’esperienza della lunga durata, non quella della storia, ma quella del tempo della vita sulla Terra: “a memoria di rosa, non è mai morto un giardiniere” (Fontenelle). Milioni di anni sono stati necessari al cammino evolutivo per organizzare il complesso ecosistema che consente agli alberi di stringere “contratti naturali” con i capricci dei venti ed il variare delle stagioni, di trovare accordi di reciproco vantaggio con gli insetti ed altri animali, di coabitare nella reciproca tolleranza, nella temperanza, come diciamo di certi climi.

Una foresta è un museo della storia del mondo: gli alberi sono le statue scolpite da un tempo ancestrale ed incantato, un bosco porta dentro di sé il senso del fiorire della vita. Siamo usciti dalla foreste, ricordava Vico, ma non abbiamo smesso di perpetuare il sogno originario di Gilgamesh, distruggere le foreste per strappare alla natura il segreto della rinascita. Gli alberi evocano la genesi persistente della vita fra le tracce del suo de-perire, l’emergere fugace della bellezza sopra il caos e nell’informe. Ma l’esperienza estetica che possiamo vivere camminando in un bosco è prossima più al sublime che non alla bellezza in senso kantiano. Non siamo spettatori immobili che osservano, a distanza, quadri incorniciati appesi alle pareti; gli oggetti non sono messi in posa, in scena, per coglierne l’identità, l’essenza definita nell’istante che si vuole eterno. Vagando in un bosco, l’intero corpo partecipa ad un’esperienza multisensoriale, non solo visiva; l’intelligenza corporea ci offre sensazioni cinestetiche, avvertiamo i muscoli in azione, ci coordiniamo nello spazio, siamo sensibili al passaggio dall’ombra al sole della radura. A differenza del motociclista, l’uomo che cammina o corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, notava Kundera; è costretto a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno, avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita.

L’ingresso nella foresta risveglia l’emozione originaria di fronte alla wilderness, alle forze grandiose e selvagge: spettacolo spaventoso e attraente, numinoso e tremendo, esperienza primordiale del sacro, nei boschi e fra gli alberi ebbero sede i primi dei, e le cattedrali non faranno che riprodurne l’architettura. Ed anche ora che gli dei hanno abbandonato la terra, che la scienza ha prodotto il disincanto del mondo, il bosco conserva il suo fascino perturbante e il suo alone di mistero: siamo in grado di spiegare i processi complessi che presiedono alla biochimica dell’ecosistema forestale, ma questo non cancella il senso di una religione senza trascendenza, la religio che ristabilisce i legami del nostro essere con il tutto, che riconnette, nel senso di Bateson, la nostra esistenza a quella dell’intera biosfera. Nell’esperienza di inoltrarsi nella foresta, lo spirito rousseauiano di Henry David Thoreau riscopriva i tempi lenti della natura selvaggia, ritrovava il senso di una continuità di vita per la quale la nostra memoria scritta non dispone di segni. Tanto più intensa la memoria quanto più ci affidiamo alla lentezza: la velocità si paga con l’oblio, quando cerchiamo di recuperare un ricordo sfuggente, la saggezza del corpo ci induce a rallentare. Il tempo del camminatore scopre i vantaggi del pensiero che asseconda il ritmo naturale di quella macchina lenta che è il nostro cervello. Un’altra vergogna prometeica ci riempie di frustrazione per l’incapacità di emulare la velocità degli strumenti digitali, di quella tecnologia soft della comunicazione che si fonda sulla leggerezza dei bit senza peso; ogni ramo della scienza, diceva Calvino, sembra dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime, i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…, materialismo informatizzato che rinnova l’atomismo antico.

Kundera lamentava la scomparsa di quegli eroi delle canzoni popolari che se ne andavano a zonzo e dormivano sotto le stelle; con loro, sono scomparsi i sentieri nei campi, i prati e le radure, in una parola la natura stessa. Un proverbio ceco definiva il loro vagabondare ozioso con la metafora «contemplare le finestre del buon Dio»: felicità concessa a chi sa apprezzare il piacere della lentezza.

Nelle future Lezioni americane, dopo la leggerezza, non potremmo assegnare un posto alla lentezza invece che alla rapidità?

 

 

Per approfondire:

 

Milan Kundera, La lentezza, Adelpgi, 1995

Harrison Robert Pogue, Foreste, Garzanti, 1999

Holmes Rolston III, “L’esperienza estetica delle foreste”, in La bellezza di Gaia, a cura di R. Peverelli, Medusa, 2007

Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1985

Michel Serres, “Metodo e randonnée”, da Les cinq sens, Grasset, 1985 (traduzione in Riga 35, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, 2015)

Michel Serres, Préface, Des ensembles à la singularité, in Paysages des Sciences, Le Pommier, 1999 (traduzione in Riga, op. cit.)

Michel Serres, Il mancino zoppo, Bollati Boringhieri, 2016

Yi Fu Tuan, Il cosmo e il focolare, Eleuthera, 1996

Pubblicato su Doppiozero il 20 Agosto 2016

In copertina: Silvia Camporesi, Atlas Italiae

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