Camminare

17 gennaio 2018 8:58 di jazzi

di Francesco Guglieri.

Per quanto il camminare sia da sempre in qualche modo collegato con il pensare, al punto di aver fornito la sostanza a molte delle principali metafore legate al ragionamento (dal “cammino della conoscenza” in giù), è con la modernità che il gesto di attraversare uno spazio a piedi acquista un valore specifico. In un certo senso, allora, il camminare come attività a sé stante è una conquista della borghesia urbana, dal momento che le principali assiologie intorno cui si definisce sono l’opposizione città/campagna e lavoro/ozio: prima c’erano nomadi, pellegrini, viaggiatori, esploratori, certo, ma non camminatori. È l’esistenza di una città che rende possibile attraversarne le strade, perdersi nei suoi dedali e annullarsi nel volto anonimo della folla; così come solo l’esistenza di agglomerati urbani permette di uscirne e camminare in montagna o in campagna: è l’invenzione del paesaggio campestre.

Allo stesso tempo il camminare è un’attività che si sottrae alla laboriosità borghese, non conduce a nessun profitto, anzi è pericolosamente vicina al bighellonare, al vagabondaggio ozioso. Inoltre è un’azione solitaria.

La solitudine che prelude al brulichio del pensiero, alla fantasticheria è, del resto, la caratteristica di uno dei primi camminatori nel senso moderno del termine: Le fantasticherie del passeggiatore solitario è una delle opere più perturbanti di Rousseau, di certo uno dei suoi libri più sperimentali: apparso postumo, Rousseau vi si dedicò negli ultimi anni della sua vita, quando ormai da tempo si era ritirato in un risentito isolamento nel suo castello a Ermenonville, in Piccardia. Il libro è composto da una serie di passeggiate che diventano l’occasione per delle digressioni biografiche, ricordi, meditazioni sui temi cari a Rousseau, ma sono soprattutto il tentativo di una mente sofferente, abbattuta, a tratti quasi rancorosa, di trovare la pace nel paesaggio. Ma il paesaggio in cui si cerca sollievo, qui, non ha ancora storia, appartiene a un tempo precedente, quello della purezza sognata, dell’origine immaginaria, dell’infanzia o della fantasticheria: “il paese delle chimere è, in questo mondo, l’unico degno di essere abitato”.

“Nel corso della mia vita ho incontrato solo qualche persona in grado di capire l’arte di camminare”: anche per Thoureau il camminare vale prima di tutto come uscita dalla città, rifiuto della civiltà industriale, elevazione spirituale – con toni non privi di una radicalità al limite del misticismo. Ma in Camminare viene fuori anche il Thoreau osservatore della natura, l’autore di lunghe e poetiche descrizioni di alberi e animali, uno dei primi e più influenti narratori della wilderness americana.

Nel Novecento il camminare – e il camminare in città in particolare – diventa anche un camminare nel tempo, il flâneur, questo grande eroe della modernità annunciato da Baudelaire e canonizzato da Benjamin, è anche uno speleologo del tempo, un viaggiatore della memoria, come se ai suoi spostamenti orizzontali per la città corrispondesse un carotaggio nel tempo storico e individuale. Basti pensare all’Infanzia berlinesedi Walter Benjamin in cui l’attraversamento della capitale tedesca viene fatta prima di tutto nella memoria e quello che viene misurato è la distanza, sempre lacerante, tra il presente, il passato e il ricordo (perché passato e ricordo non sono quasi mai la stessa cosa): “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta”.

Lo sa bene quello che è stato senz’altro il maggiore erede dell’approccio benjaminiano alla città e al paesaggio in anni recenti, e cioè W. G. Sebald: Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo, non fa che camminare attraverso le città d’Europa, da Aversa a Parigi, da Praga a Theresienstadt, alla ricerca di una memoria rimossa, in un tentativo di non farsi schiacciare da quel trauma, personale e storico, che è stato il Ventesimo secolo. Ma è già ne Gli anelli di Saturno del 1995 che Sebald esplora tutte le potenzialità della camminata attraverso il paesaggio come straordinario ordigno narrativo e conoscitivo, capace di mettere insieme osservazione naturalistica, memoria storica, passo narrativo e dettaglio saggistico, nature writing e autoficition. Amarissima ironia della storia, questo grande poeta del camminare morirà nel 2001 in un incidente d’auto.

Tra i più sebaldiani degli scrittori d’oggi, autori che hanno fatto del camminare più che della trama le ossature dei loro libri, vanno citati almeno Teju Cole e Ben Lerner. Città aperta di Cole, in particolare, è il racconto di una serie di passeggiate serali di Julius, giovane medico di origine nigeriana, in una Manhattan contemporanea attraversata dai fantasmi dell’11 settembre, delle rivolte per i diritti civili negli anni Settanta, dell’immigrazione e gentrificazione di oggi, dello schiavismo di ieri: una genealogia della violenza condotta con il passo divagante, apparentemente svagato ma attentissimo, di un flâneur contemporaneo.

In Inghilterra, negli ultimi trent’anni, si è formata un’interessante tradizione di scrittori-camminatori: autori, artisti, fotografi, geografi, spesso tutte queste cose insieme, che dell’osservazione e racconto del paesaggio hanno fatto il centro della loro ricerca. Tra i tanti vorrei ricordare Le antiche vie di Robert Macfarlane e lo splendido London Orbital di Iain Sinclair, un attraversamento a piedi dell’M25, la circonvallazione a dieci corsie che circonda Londra. Sono libri e autori che ricordano come il camminare sia un “oggetto sociale” intrinsecamente ambiguo: permette di vedere le linee di frattura di una società ma può anche diventare una facile moda, portatore di uno sguardo solo apparentemente emancipatorio e invece egemonico, diventare esso stesso agente di una gentrificazione che invece denuncia.

I nomi fatti finora sono tutti nomi di uomini: sembrerebbe che quella del camminare sia prerogativa di solo metà della specie umana, come se l’utero non fosse compatibile con i piedi. Non è così ovviamente, e se c’è stata una rimozione delle donne c’è stata solo per motivi politici. Lauren Elkin in Flâneuse parte proprio da qui (anzi dalla parola: il femminile di flâneur è attestata pochissimo) per sottolineare quanto l’accesso delle donne alla strada sia stato (e lo è ancora) uno dei temi politici centrali del moderno – la donna “perbene” doveva restare chiusa in casa, la strada è il territorio degli uomini o delle prostitute. Percorrendo le vie di alcune città che ha abitato o visitato, Elkin ricostruisce la storia delle donne che le hanno attraversate e, in un certo senso, conquistate: da George Sand a Jane Rhys a Sophie Calle.

In Lonely City Olivia Laing scrive una storia della “solitudine in città” che è anche una storia del suo primo anno a New York, appena lasciata dal compagno, quando non conosceva nessuno e passava il tempo girando da sola tra musei e tavole calde.

Due secoli e mezzo dopo Rousseau, il “passeggiatore solitario” non ha più un unico genere.

Pubblicato da Il tascabile l’8 Agosto 2017.

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