Le esperienze del ritorno in rete

27 luglio 2016 12:14 di jazzi

di Antonella Tarpino.

Dagli jazzi (“iacere, giacere”) – dimore temporanee, giacigli per il ricovero di animali da pascolo – prende il nome il progetto di “valorizzazione” del Parco del Cilento e del Vallo di Diano, la seconda area protetta italiana per estensione dopo il Parco del Pollino in Calabria. Con i suoi infiniti percorsi naturali, tra il mare e i monti, e un ricchissimo complesso di mulini, frantoi, ripari, stalle, cantine.

Ripari per animali da pascolo, visioni di mari e di monti: una modalità di “abitare la natura”– o di riabitarla in forma di casa, oltreché di paesaggio – che mi fa pensare al Parco intitolato a Francesco Biamonti nel Ponente ligure, i sentieri mediterranei fra gli ulivi, i percorsi degli ovili che ho avuto l’occasione di visitare (con base a S. Biagio della Cima): lì nei luoghi dei romanzi-paesaggio di Biamonti (così li ha definiti Italo Calvino) dove “uliveti abbandonati, muretti a curve, a spigoli, a controtornate (Attesa sul mare) hanno l’effetto, con la loro antichità, di ringiovanire il cielo”. E dove – ecco l’abitare la natura – “l’uomo amalgamato al suolo” vive, pur nella sua sconfitta sempre più profonda, una promessa di immortalità: “non che una parte di lui non torni affatto alla terra, ma che non ne sia mai veramente uscito (Le parole e la notte).

Sentieri che procedono per linee interne, ricoveri per animali da pascolo, il progetto del Parco del Cilento ha per me forti assonanze non solo con il Parco Biamonti degli amici dell’Associazione, Corrado Ramella, Camilla Traldi, Massino Quaini, e Giancarlo Biamonti, il fratello dello scrittore, ma anche con l’alpeggio di Paraloup, Valle Stura, nelle Alpi cuneesi, recuperato ad opera della Fondazione Nuto Revelli di cui faccio parte. Paraloup, dall’evocativo nome agro-pastorale, divenuto alla metà del Novecento sede della prima banda partigiana “Italia Libera” di Giustizia e Libertà guidata da Duccio Galimberti (quello citato nella canzone ultracelebre Morti di Reggio Emilia) Livio Bianco e Nuto Revelli, lo scrittore partigiano che raccontò l’epopea del Mondo dei vinti, l’esodo dei contadini in fuga verso le fabbriche della piana negli anni del boom.

Ritrovo molti echi, parole d’ordine affini nel progetto sul Parco del Cilento che abbiamo sperimentato e praticato negli anni all’interno del percorso, non sempre facile, di Ritorno alla borgata abbandonata di Paraloup. Provo ad evidenziarne alcuni:

In primo luogo la convinzione che il Ritorno sia anzitutto Relazione (“Il progetto Jazzi – cito – sperimenterà un nuovo modo di abitare la natura, vissuta come ambito di vita e di relazione, attivando un luogo, fisico e virtuale, che fa dell’ospitalità una strategia produttiva. La natura è casa”). Anche noi della Fondazione Nuto Revelli non ci siamo limitati a considerare il progetto Paraloup come una operazione di semplice ripristino quanto, al contrario, di liberazione di voci, visioni, vecchie e nuove intorno alle pietre e ai paesaggi che ci sono venuti quasi naturalmente incontro.

Relazione anzitutto fra il presente e il passato. Rivolgendo ai luoghi sguardi ogni volta differenti nell’intento, insieme, di averne riguardo (secondo la felice immagine dell’antropologo e amico Vito Teti). Sovrapponendo – fin dalla messa in sicurezza delle strutture architettoniche – alle antiche pietre declinanti delle baite moderni contenitori in castagno per arrestarne la caduta. In un dialogo aperto tra le diverse temporalità (evidente già nel gioco sobrio dei materiali) nel lungimirante progetto messo a punto dal gruppo di architetti specialisti in edilizia montana.

E poi relazione interna al tessuto sociale. Relazione, dialogo con la comunità circostante (“prime forme di recupero – leggo ancora nel Progetto Jazzi – e un’ampia rosa di attività culturali, mediante un continuo dialogo e scambio tra la comunità locale e i mondi dell’arte e dell’innovazione”). Per Paraloup è stata fondamentale la lezione che ci ha impartito l’ex Presidente della Comunità montana Valle Stura quando, dubbiosi noi per primi sul senso pieno del Ritorno alla borgata, ci ha mostrato quanto la rinascita dell’alpeggio, vivo ancora nella memoria partigiana e della cultura della montagna (indissolubili per gli abitanti) avrebbe concorso a dare un significato prima di tutto a quelli che nelle vallate semidiroccate della Valle Stura avevano scelto coraggiosamente di restare.

Ritorni in rete

Abbiamo sperimentato l’importanza delle relazioni (corte e lunghe) in occasione del primo Festival del ritorno ai luoghi in abbandono nel 2011 che si è tenuto a Paraloup con l’intento di celebrare il 150 esimo dell’Unità d’Italia a partire proprio dai margini, dalle periferie del Paese, non dalle città e delle metropoli, ma a partire dai tanti abbandonati della Calabria, dell’Irpinia, dell’Abruzzo oltre che dalla montagna cuneese). E nell’ottobre, in stretta sinergia con il tessuto comunitario di prossimità, quando gli amministratori locali ci hanno proposto di fare a Paraloup un grande falò per “mettere a fuoco” il problema drammatico dell’abolizione dei piccoli comuni, sotto i mille abitanti, ultimi presidi, gestiti quasi volontaristicamente, nel territorio sofferente della montagna povera. Così – procedo con i paralleli – negli intenti del Parco del Cilento con la scelta di privilegiare “centri di provincia come luoghi di confine, spazi oggi impoveriti della loro precedente funzione sociale ”.

I processi di Ritorno, a Paraloup, e così nei casi che sperimento insieme agli amici della Rete del ritorno nell’Oltrepo’ pavese o a Soriano in Calabria, seguono contaminazioni vitali fra Memoria e e Innovazione. Perché anche le parole nei percorsi del Ritorno acquistano significati differenti.

Parole come Identità, o come la stessa Memoria, vanno ripensate esse stesse, non tanto come tradizione o nostalgia quanto come posta in gioco di una battaglia  costantemente in atto: occasioni per ridare cittadinanza, nel nostro tempo e nel nostro “spazio”, alle cose che riteniamo ancora contino per noi: cose perse da riacquisire (un sentimento urgente di riabitare la natura e la nostra stessa storia) Cosicché ciò che fluttua in sospensione spesso al più come presagio di memoria nei nostri vissuti trovi posto in un racconto condiviso, saldi legami vecchi e nuovi.

Innovazione: anche questo è un termine da ibridarsi. Per qualificare il senso oggi dell’operazione del Ritorno mi affido al linguaggio un po’ eretico dell’“antropologia dell’innovazione” di scuola francese: un’antropologia attenta alle continuità e insieme ai cambiamenti, alle rotture. E dove innvazione vuol dire apportare conoscenze nuove sia organizzare in modo diverso vecchie conoscenze (è il caso, in particolare, delle innovazioni in campo agropastorale e delle recenti formule di Ritorno ai terreni abbandonati) con la consapevolezza che il futuro è un mix fra culture che hanno a che fare non solo con saper tecnici ma più complessivi processi di ordine sociale. Ancora un’assonanza cruciale : “La sfida – conclude il Progetto Jazzi – è portare processi e tecniche di  innovazione sociale in ambienti in cui la tradizione non è mai stata il punto di partenza”.

Pubblicato su Doppiozero, il  27 Luglio 2016.
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