Innovatori culturali e aree interne

26 novembre 2016 6:15 di jazzi

Di Stefano Consiglio

SPECIALE AREE INTERNE. E’ presto per fare un bilancio di queste esperienze ma sicuramente è possibile tracciare le caratteristiche dei promotori di queste iniziative. Stefano Consiglio, Docente presso l’Università Federico II di Napoli traccia un identikit di questi innovatori che scelgono un lavoro defilato, lontano dalle luci delle grandi città

Nel corso degli ultimi anni, nelle aree interne del Mezzogiorno d’Italia, si sono sperimentate nuove pratiche di gestione del patrimonio culturale ed ambientale: centri storici disabitati che rinascono grazie all’arte contemporanea (Favara Cultural Park in provincia di Agrigento); piccoli borghi medioevali in rovina che si trasformano in alberghi diffusi (Borgo di Castelvetere in provincia di Avellino), impianti enologici abbandonati che diventano luoghi di produzione artistica e di servizi sociali per il territorio (Ex Fadda a San Vito dei Normanni in provincia di Brindisi), piccoli centri che rilanciano produzioni agricole ormai scomparse (Terre di Resilienza nel Cilento in provincia di Salerno).
Così come evidenziato nell’interessantissima intervista a Filippo Tantillo, le aree interne spesso sono in grado di trasformarsi da contesti marginali in terreni di sperimentazione di nuove esperienze in ambito culturale ed ambientale. E’ presto per fare un bilancio di queste esperienze ma sicuramente è possibile fare alcune prime considerazioni, a partire dalle caratteristiche dei promotori di queste iniziative.

L’avvio di pratiche innovative di valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale è solitamente il frutto dell’attivazione delle comunità al cui interno spiccano alcune personalità in grado di svolgere una funzione di propulsione, accelerazione e facilitazione.
Grazie ad un’indagine svolta su una serie di casi empirici abbiamo provato a delineare alcune delle caratteristiche di questi innovatori. Tra i punti di forza è possibile evidenziare, in primo luogo, una spiccata determinazione e testardaggine, necessaria per vincere l’inerzia esistente all’interno di queste realtà (“chi ve lo fa fare?”; “non è possibile cambiare”, “ci sono cose più importanti da fare”).

Un’altra importante caratteristica è legata alla capacità di collaborare, piuttosto che alla capacità di competere: l’abilità di costruire relazioni e alleanze tra i soggetti attivi della comunità diventa, infatti, leva principale per rompere l’inerzia, la tendenza all’immobilismo e per costruire le coalizioni per il cambiamento.

Il background di questi soggetti è frequentemente caratterizzato da solidi percorsi formativi e significative esperienze professionali in contesti urbanizzati nazionali ed internazionali. Il forte senso di attaccamento alla propria terra ed in alcuni casi anche la difficoltà di vivere nelle grandi città italiane ed internazionali in tempi di crisi, rappresentano gli stimoli principali del ritorno ai luoghi natii.

Il fattore che rallenta e a volte blocca tante esperienze di questo tipo, invece, è rappresentato dal contesto istituzionale avverso che queste iniziative sono chiamate a fronteggiare. Da questo punto di vista si potrebbe osservare che la principale policy per favorire la crescita e lo sviluppo di questo fenomeno consiste semplicemente nel cercare di non ostacolare tali iniziative.

Un atteggiamento non ostile nei confronti di queste esperienze richiede però la capacità di non replicare routine consolidate e di convincersi che fare qualcosa di nuovo non necessariamente significa compiere un errore o non rispettare una legge o un regolamento. Questo cambio di passo per le comunità e per le istituzioni non è da poco ma le cose iniziano a muoversi.

Pubblicato da Il giornale delle fondazioni il 15/11/2016

 

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