Community: reale o virtuale?

15 dicembre 2016 9:00 di jazzi

di Luca Garavaglia

Robert D. Putnam, nel suo saggio Bowling Alone[i] descrive la desertificazione del capitale sociale negli Stati Uniti di fine ventesimo secolo, dove per la prima volta nella storia molte delle funzioni quotidiane e routinarie connesse agli ambiti dello svago, dell’informazione e della socializzazione potevano essere effettuate sulla base di scelte individuali e non più collettive. In questo scenario Putnam considera la minaccia di un diffuso indebolimento delle forme di solidarietà comunitaria, rintracciandone le cause molto più nella progressiva diffusione di tecnologie “individualizzanti”, dalla televisione a internet, che in fenomeni di natura sociale. Con le aumentate possibilità di interazione tra persone attraverso reti tecnologiche in grado di scambiare flussi di informazione sempre più complessi, stanno rapidamente emergendo modelli originali di socializzazione e associazione, slegati dai vincoli geografici e politici ed organizzati invece nello “spazio dei flussi”. Questo segna la rottura del rapporto privilegiato tra la comunità e il territorio: non si è più costretti a limitarsi a interagire con chi abita e lavora vicino a noi, e la socializzazione si attua in dinamiche fluide, nelle quali le appartenenze sono parziali e aperte, spesso caratterizzate da una condizione temporanea, come nelle “comunità emozionali”[ii] connesse da legami generati da scelte occasionali (stili di vita, mode, stili, specifiche issues di protesta, fino al codice genetico nel caso del network 23andMe raccontato su Terra Mobile da Francesco Samorè) e non invece dalla condivisione di una cultura. Ci si smarca dai luoghi per definire la propria identità in senso relazionale, in reti che ciascun cittadino costruisce sulla base delle proprie relazioni sociali più importanti (siano esse di natura familiare, affettiva, di vicinato, di lavoro o di interessi): in questo senso Wellman parla di “personal community[iii]. A causa dell’ampliamento e della parziale smaterializzazione in internet degli areali di vita e di lavoro della popolazione è sempre più difficile riconoscere le comunità locali come le aveva individuate Parsons, cioè come collettività “i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere”[iv]. Il capitale sociale deve essere rintracciato in sistemi di flussi in perenne movimento e ricomposizione, all’interno dei quali si organizzano “tracce di comunità”[v]. Accedere ai flussi della società dell’informazione in cui queste dinamiche comunitarie post-moderne si organizzano dipende, più che dal luogo in cui ci si trova, da requisiti personali. Una frattura (il digital divide) si è aperta tra coloro che sono in grado di connettersi allo spazio dei flussi tramite internet e gli analfabeti digitali che possono identificarsi solo in base a rapporti locali face-to-face e a modelli di identità collettiva veicolati da Stati e mass-media non interattivi (tv, stampa, etc.). Questa frattura non è tanto tra territori, seppur permanga un forte divario tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo, quanto tra classi sociali (privilegiando chi può accedere a livelli di istruzione superiore e a più raffinati strumenti ICT) e tra generazioni (il rapporto Measuring the information society prodotto nel 2013 da ONU ITU stima che il 30% dei giovani tra i 15 e i 24 anni siano nativi digitali).

 

Ma i processi di identificazione e di socializzazione che si svolgono online possono sostituirsi a quelli face-to-face? Pur se differenti da quelle fisiche per regole e pratiche, le comunità virtuali ci appaiono caratterizzate da forme di socialità loro proprie che non sono meri sottoprodotti – o peggio, forme degenerate – dei processi di socializzazione fondati sulla copresenza nello spazio[vi]. Chi vi opera tende a creare un io online coerente con la propria identità offline, perché l’interazione è fondata su interessi e valori condivisi; al loro interno si possono sviluppare tra le persone legami di supporto e di amicizia. Si tratta in altre parole di comunità (gemeinschaft) vere e proprie, in grado di produrre più forme di capitale sociale. La differenza rispetto alle comunità fisiche non deve essere cercata nella forma o nell’intensità delle relazioni tra gli individui, ma nel contesto che ospita l’azione. Nelle località fisiche, l’azione dell’uomo ha forgiato lo spazio arricchendolo di significati e di funzioni che permettono ai luoghi di favorire e arricchire l’interazione[vii]. Nelle comunità virtuali, invece, la maggior parte delle relazioni si organizzano per via telematica, in un contesto molto più rigido e povero, in quanto definito dalla tecnologia utilizzata, che oggi non consente la ridondanza di canali di informazione tipica delle relazioni face-to-face. La conseguenza è una minore ricchezza di significati e una minore flessibilità e adattabilità degli stili di comunicazione. Va notato che rispetto alle forme di interazione “in remoto” precedenti – si pensi al telefono – le comunità virtuali odierne sono in grado di sviluppare un contesto che arricchisce l’interazione coinvolgendo più sensi (vista, udito, per certe interazioni è in diffusione un limitato feedback tattile) e aggiungendo elementi simbolici. In un MMORPG (gioco di ruolo online) come World of Warcraft della Blizzard (12 milioni di utenti nel 2010) gli avatar possono mutare di aspetto fisico, di abbigliamento, di pettinature, possono discutere in pubblico o in privato, possono baciarsi, azzuffarsi o rivolgersi a vicenda gesti offensivi, ma il catalogo delle azioni disponibili è limitato e assai meno ricco di possibilità di quello accessibile in ambienti fisici, e non coinvolge per nulla il tatto o l’olfatto. Soprattutto, le azioni degli utenti non modificano l’ambiente in cui l’azione si svolge: la memoria del passato è disponibile solo negli archivi di backup, e il cambiamento del contesto, che esprime in forma visibile la storia della comunità, non è operabile direttamente dagli attori, ma solo dai programmatori e dagli amministratori di sistema. La possibilità di modificare in maniera permanente il contesto in cui si svolge l’interazione tra avatar è alla base dell’enorme e inatteso successo di un videogioco come Minecraft, una piccola produzione di una minuscola software house, Studios Mojang, che nel 2014 ha superato i 100 milioni di utenti registrati (ovviamente gli assidui frequentatori del gioco, che è in prevalenza utilizzato dai giovanissimi, sono molti meno), diventando fenomeno di culto. In Minecraft gli utenti sono in grado di costruire o modificare ogni aspetto del contesto, ma a prezzo di un minore livello di dettaglio ambientale: tutte le forme fisiche (animale e persone comprese) sono composte da iper-pixel cubici a loro volta ricoperti da texture di grossi pixel bidimensionali, un aspetto volutamente retrò che nasconde i limiti di “personalizzazione” del paesaggio e di interazione concessi all’utente dai programmatori e dal motore grafico: di fatto in Minecraft la costruzione dell’ambiente costituisce il gioco stesso, e le attività sociali sono poco sviluppate.

 

Considerata l’importanza del contesto nel definire la qualità dell’interazione, la scarsa ricchezza degli ambienti virtuali potrebbe essere interpretata come un severo indizio della loro inferiorità rispetto a quelli reali. Non dobbiamo però cedere alla tentazione manichea di rifiutare ogni similitudine tra gli spazi fisici e quelli virtuali, come suggerirebbe l’analisi degli ambienti di comunità virtuale oggi disponibili (i gruppi Usenet, le chat IRC, i MMORPG come World of Warcraft o Minecraft, Second Life, MySpace, Facebook, etc.): come notato da Joy Marino in questa stessa rubrica, l’evoluzione delle tecnologie ICT è ancora in una fase esplosiva, e rende continuamente disponibili architetture di interazione sempre più complesse, che rapidamente si sostituiscono alle precedenti. Gli sviluppi futuri degli ambienti virtuali possono essere predetti solo con un uno sforzo di immaginazione: nel suo romanzo Diaspora del 1997, lo scrittore australiano di hard science fiction Greg Egan descrive una società futura in cui la maggior parte degli esseri umani ha abbandonato il corpo fisico e vive in forma di software intelligente all’interno di comunità informatiche chiamate polis, città virtuali indipendenti le une dalle altre e interconnesse in una Coalizione che costituisce il nuovo habitat della specie umana. I cittadini informatizzati possono intervenire sulla realtà materiale grazie a una vasta rete di sensori, probi, droni e satelliti sparsi nel Sistema Solare, ma tutti i processi sociali hanno luogo in ambienti virtuali generati dalle polis, chiamati scapes (da landscapes: come dire, territori senza terra) in cui gli individui si manifestano come avatar. Le decisioni relative alla organizzazione e gestione della città virtuale sono frutto di un accordo collettivo sancito da una Costituzione che è propria di ogni polis e che è stabile nel tempo. Vi sono così polis di solipsisti, polis di scienziati, di esploratori, di artisti, polis dedicate a particolari scuole di riflessione filosofica. I cittadini che non si trovano in accordo con le regole della Costituzione – perché anche se privi di corpo gli esseri umani non cessano di cambiare le proprie opinioni ed umori – possono “votare coi piedi” migrando liberamente verso altre polis più confacenti alle proprie attitudini. La stabilità delle Costituzioni permette alle polis rendere disponibili scapes permanenti, sui quali però gli abitanti possono sempre intervenire, modificandone l’aspetto: senza alcun limite all’interno di aree private o personali, in base a scelte negoziate tra i cittadini per gliscapes collettivi. In questo modo gli scapes acquistano progressivamente significato simbolico per i cittadini, che vi riconoscono i segni della storia della polis così come della propria personale, e diventano in grado di imitare il contesto delle località fisiche.

 

Nel 2015 siamo ancora molto lontani da comunità virtuali che siano in grado di generare contesti paragonabili a quelli delle località fisiche per durabilità, inclusività, ricchezza di funzioni, capacità di accogliere significato. Questi limiti non impediscono alle località virtuali odierne di produrre relazioni arricchenti per i propri utenti, ma rendono semmai meno diffusi, più difficili e più lenti i processi di socializzazione: nessun cittadino può oggi sostituire totalmente la dimensione virtuale a quella fisica, perché non vi sono scapes sufficientemente complessi e stabili da incentivare – e non solo consentire – la produzione di capitale sociale. Le comunità virtuali odierne non consentono lo sviluppo di posizioni di cittadinanza paragonabili a quelle delle località fisiche: si può appartenere a più comunità virtuali differenti nello stesso tempo senza che vi siano conflitti, perché su ciascuna si svolgono attività diverse e si intessono relazioni orientate a differenti fini. L’appartenenza a una o più comunità virtuali si somma all’appartenenza a una comunità locale, piuttosto che sostituirsi ad essa. I rapporti comunitari e di vicinato non risultano quindi annullati, anche se possono andare in crisi di fronte all’accelerazione dei processi di connessione e scambio che si svolgono in arene virtuali invece che in agorà locali. Il trasferimento di intere aree di socializzazione in spazi virtuali da parte di una rilevante percentuale della popolazione porta alla moltiplicazione dei codici di comunicazione e dei sotto-sistemi culturali e valoriali, aumentando di fatto l’incomunicabilità. Questi processi sottraggono interazione alle località e snaturano una parte delle identità locali, ma la corrosione del vicinato osservata da Putnam costituisce il lato yin di una dinamica in cui si assemblano anche identità e relazioni prodotte negli spazi virtuali ma non slegate dai luoghi nelle loro forme ed effetti, relazioni che si reificano ri-producendo effetti comunitari nei luoghi fisici.

 

La ricomposizione del quadro comunitario entro il quale gli individui costruiscono le proprie forme di identità e di socializzazione deve svilupparsi parallelamente nei contesti reali e in quelli virtuali, sulla base di una razionalità plurale[viii] che postula la contemporanea presenza di molteplici spazi relazionali non interconnessi tra loro, ai quali si accede per scelta e non per status. È questo il compito di discipline quali la community informatics, che studia come le ICT, a partire dai social media del Web 2.0 e dalle applicazioni di telefonia mobile, possano essere orientate per rafforzare forme comunitarie che si sono marginalizzate o indebolite nelle nuove geografie sociali[ix]. La community informatics non considera le ICT come sistemi neutrali rispetto ai flussi scambiati, ma come ambienti in grado di arricchire la comunicazione, e progetta spazi virtuali “orientati alla comunità”. Queste esperienze stanno contribuendo allo sviluppo di applicazioni in grado di rafforzare i ponti tra la dimensione comunitaria che si attua nei luoghi e quella che si svolge nella città dei bits: dalla progettazione collettiva degli spazi urbani, come nel caso del processo inclusivo realizzato a Helsinki per la riqualificazione del parco pubblico dello Roihuvuori Youth Centre, alle pratiche intelligenti di diffusione degli Open Data rilasciati dalle amministrazioni pubbliche. In Italia assistiamo alla moltiplicazione di forme di community informatics, sia in processi istituzionali quali i programmi nazionali e comunitari per le smart cities, sia in iniziative “dal basso” che mirano all’animazione territoriale come le social street. Non sono solo gli spazi in cui si svolgono le pratiche comunitarie a essere ridisegnati, ma anche le norme stesse che regolano le comunità: è su questa frontiera che le intelligenze locali, nella pubblica amministrazione e nella società civile, si devono esercitare per riconoscere e ordinare le forme di potere non più mediate dalla proprietà terriera[x], gli spazi di dibattito politico in condizioni di fluidità delle appartenenze e delle identità, i confini che delimiteranno gli ambiti di organizzazione della collettività e dell’azione collettiva.

 

 


Putnam, R. (2000). Bowling Alone. The collapse and revival of American community. New York: Simon & Schuster. Ed. Italiana: Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna: il Mulino, 2004.

Maffesoli, S. (2004). Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne.Milano: Guerini e Associati.

Wellman, B. (2001). Physical place and cyberspace: the rise of personalized networking. International Journal of urban and regional research, 25.

Parsons, T. (1965). Il sistema sociale. Milano: Edizioni di Comunità.

Bagnasco, A. (1999). Tracce di comunità. Bologna: Il Mulino.

Per approfondire lo studio delle comunità virtuali: S. Jones (A cura di), Cybersociety 2.0: revisiting computer mediated communication and community. Thousand Oaks: Sage; Wellman, B., & Haythornthwaite, C. (A cura di), (2002). Internet in everyday life. Oxford: Blackwell.

Appadurai, A. (1996). Modernità in polvere. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Beck, U. (2000). La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci.

Goodwin, I. (2008). Community informatics, local community and conflict. Convergence, 14(4).

Perulli, P. (2009). Visioni di città. Le forme del mondo spaziale. Torino: Einaudi.

Pubblicato su Doppiozero il 25 Novembre 2015.

In copertina: Bill Viola, Tempest study for the Raft, 2005.

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